Alla fine nessuno riuscì a salvarli. Rimasero là sotto, nel freddo e nel silenzio, com’era successo a tanti prima di loro e come sarebbe successo a tanti altri dopo di loro. Secoli di nomi dimenticati sul fondo del mare.
Ancora oggi mi chiedo se non avesse ragione Domenico C., con i suoi sensi di colpa, con le fissazioni sui complotti del governo e i nemici nascosti ovunque. Forse non era stato fatto abbastanza, forse qualcosa, o qualcuno, aveva sbagliato. Oppure aveva tramato nell’ombra, perché la macchina era più importante dell’uomo, perché recuperare l’intero battello era più utile della vita di quattordici persone. Del resto sull’inchiesta fu mantenuto il segreto per oltre cinquant’anni, e sull’affondamento del sommergibile Medusa poco e nulla allora si doveva sapere, poco e nulla seppero in seguito i genitori, i figli, i fratelli, i parenti di quanti morirono nel naufragio. Ma le memorie non dicono questo, negli archivi non c’è traccia di complotti. Altri silenzi, forse.
Oppure, come diceva Vera, si trattò solo di maledetta sfortuna. Gli dei della guerra avevano voluto cosı`. Lo disse anche l’ultima volta in cui la vidi, quel pomeriggio di ottobre, di ritorno dal camposanto di Monte Ghiro, a Pola. Avevamo lasciato Marko sotto casa sua, stavamo tornando in auto a Trieste dopo aver dato un’ultima occhiata al mare, laggiù , verso la punta estrema dell’Istria, dove tutto era cominciato. Eravamo stanchi e taciturni, Domenico C. immalinconiva curvo sotto il peso degli anni e dei rimorsi. Vera cercò di consolarlo con la battuta sugli dei della guerra, ricordo che il vecchio accennò appena un sorriso, un ghigno di complicità. Gli piacevano le frasi decadenti, lui che aveva combattuto dalla parte sbagliata.
E poi c’è quel nome, Medusa. Un altro sommergibile italiano con lo stesso nome della Gorgone degli abissi era stato colpito nel 1915 in circostanze del tutto simili e in un punto non distante da quello in cui colò a picco il Medusa, poco al largo di Capo Promontore. « Lo sguardo della Medusa impietrisce gli uomini, meglio lasciarla in pace » diceva Vera, che amava le citazioni. Secondo lei quel nome avrebbe dovuto consigliare maggior cautela alla Regia Marina, almeno ricordando l’affondamento, nel 1816, della nave francese che aveva ispirato il celebre dipinto di Géricault: La zattera della Medusa, con i naufraghi che si sbranano fra di loro mentre in lontananza appare la salvezza, a simboleggiare un’epoca di sconforto e delusione.
La vicenda dei quattordici marinai chiusi nella camera di lancio di poppa del sommergibile Medusa a trenta metri di profondità non è di quelle che occupano molto spazio nei libri di storia. Una piccola, insignificante cifra nella contabilità dei massacri, delle tante vite scomparse in mare. Solo nel corso della seconda guerra mondiale andarono perduti quasi cento sommergibili italiani, sui quali – dentro i quali – morirono più di duemila uomini. Di alcuni di quei battelli non si è saputo più nulla, sono spariti fra le onde senza lasciare altra traccia se non uno scarno rapporto consegnato agli archivi. Di altri si ricordano l’agonia più o meno lunga, salvataggi più o meno riusciti, vicende che hanno ispirato libri e film d’azione.
Il catalogo delle tragedie sottomarine contempla sigle e nomi famosi: il sommergibile F14, l’Iride, il Galvani, lo Scirè e altri ancora. Tutte le nazioni hanno la loro lista, con un’infilata di U-Boote germanici, britannici come il Tethis (giugno 1939, affondato in cinquantatre ´ metri d’acqua con la prua nel fango, si salvarono quattro uomini su centotrè), fino al dramma del sottomarino russo Kursk.
Il ricordo del Medusa è invece rimasto sottotraccia, una di quelle microstorie che stanno lı`, semisepolte dagli anni, e ogni tanto riemergono a sprazzi, magari in modo sommario e confuso, e poi tornano a riposare per lunghi anni nella memoria. Finche´ qualcosa non le evoca di nuovo – un’altra guerra, altra sofferenza – e allora i fantasmi si rimettono in moto, le voci dal fondo si fanno risentire. E possono diventare insistenti, fastidiose, un ronzio continuo e ossessionante. Il solito passato che torna. Una sinecura, stando alla definizione di Vera. Qualcosa di cui liberarsi prima o poi perché, diceva Vera con sottile malizia, alla fine di ogni storia c’è un tempo per il ricordo e un tempo per la vita.
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