Negli anni Settanta, due grandi registi tedeschi girarono film negli Stati Uniti. Ben lontani da Hollywood e dal sistema produttivo del sistema-stella, furono in grado di dare dell’America una visione non filtrata e non codificata se non dal loro proprio sguardo straniero.
Ciò che Werner Herzog e Wim Wenders (i due registi di cui sopra) videro e misero su pellicola in film come Alice nelle città e La ballata di Stroszek fu, molto semplicemente, il vuoto. L’America non si presentava come la terra promessa delle infinite possibilità dove non esistono pregiudizi e limiti alla realizzazione di sé e alla ricerca del successo e della felicità. Era un grande spazio vuoto, una distesa di nulla che risucchiava e ammutoliva.
Questa digressione cinematografica serve per avvicinarsi alla poetica dello spazio, presente in tutti i romanzi di Cormac McCarthy, non solo nella famosa trilogia della frontiera. Forse il suo modo stesso di scrivere e pensare la letteratura è legato allo spazio, alla distesa vuota. Perciò, quando McCarthy decide di scrivere un romanzo per molti versi accostabile al genere noir, Non è un paese per vecchi (vedi libri/3130), è inevitabile che il luogo in cui si svolge la storia, al di là delle indicazioni geografiche a cavallo fra Messico e Texas, sia proprio quel vuoto che già era presente nei suoi precedenti, e che per la prima volta fu filmato da Herzog e Wenders.
Gli spazi, immensi e vuoti, del West moderno (il romanzo è ambientato intorno al 1980) sono l’antitesi della giungla urbana tanto cara al Genere. Invece della selva di palazzi e del reticolo di strade asfaltate, il deserto piatto e fermo con le tracce di pneumatici a segnare la sabbia.
McCarthy trasporta il noir fuori sede, lo svuota e sostituisce la paranoia dell’ambientazione urbana con la quiete senza tempo del paesaggio polveroso, del grande nulla, il vuoto americano visto nei film dei registi tedeschi.
Lo spazio vuoto dell’Ovest si tinge di nero perché smette di essere il luogo della libertà e del libero sviluppo della volontà umana, e viene occupato. Occupato dalla consapevolezza del male e della responsabilità. Un reduce dal Vietnam, Moss, sottrae una valigetta piena di soldi a dei trafficanti. Si scatena la caccia all’uomo. Sulle sue tracce, Chigurh, criminale incallito, assassino impassibile, metodico, vendicativo fino al parossismo. E da ultimo lo sceriffo Bell, reduce dell’altra guerra (quella mondiale), che raccoglie i cocci.
I tre protagonisti si muovono l’uno sulle tracce dell’altro, nel grande spazio dell’Ovest moderno, riempito e abitato da presentimenti, coscienza del dolore, dall’ineluttabilità della tragedia. E forse è proprio la dimensione tragica il tratto più forte, autenticamente indimenticabile, di questo romanzo. Fin dalle prime pagine si intuisce che non ci sarà scampo. Si presente l’arrivo della tempesta ma non c’è modo di correre al riparo.
E la tempesta si abbatte. Le riflessioni dello sceriffo Bell aprono ciascun capitolo. Si fa strada a ogni pagina la sua resa di fronte all’orrore di un mondo che è fuori controllo, ormai incomprensibile per chi, come lui, proviene dal tempo della nettezza e dei contorni distinti e chiari. Ed Tom Bell è un personaggio tragico nel senso classico del termine. Nella capacità di Cormac McCarthy di creare una figura letteraria che assume dimensioni quasi titaniche nel suo fallimento, che trasmette lo sconforto e la disperazione di chi non può fare niente pur sapendo cosa sta per succedere, in questo risiede la potenza di questo romanzo. Una forza che va ben oltre la vicenda narrata, ben oltre i piatti meccanismi della suspense e dell’intreccio a effetto.
È questa forza a riempire il vuoto dello spazio americano, a popolare deserti e praterie con elementi radicalmente tragici che sembrano provenire dalla notte dei tempi, da un passato mitico o ancestrale, da un luogo in cui tutti siamo stati e che a tutti risulta famigliare, in cui ognuno finisce per riconoscersi.
Non è il consueto dramma dei vecchi contro i giovani, quello che mette in scena McCarthy, non è la lotta fra il Bene e il Male (con la maiuscola), fra luce e ombra, dio e demonio. È invece qualcosa di più profondo, più complesso, qualcosa di universale e comune: un elemento, una sensazione, un presentimento che emerge lentamente e gradualmente nel corso della lettura.
È il nero che occupa lo spazio vuoto illimitato dell’Ovest americano: il nero dell’oblio dal quale risorge il presentimento della tragedia, dell’ineluttabilità, del fallimento (personale e collettivo). Il presentimento risale da un passato nebuloso e non soggettivo, investe poco a poco le cose presenti, le persone, i pensieri e le sensazioni. Tutto viene coperto dalla consapevolezza che ciò che accade trascende definitivamente la capacità d’intervento e scelta personali, è fuori portata, inarrivabile e immodificabile.
Come una canoa che precipita, attraverso le rapide, verso il rovescio della cascata, così il romanzo nero di Cormac McCarthy va verso la sua conclusione, senza scampo.
L’importanza di Non è un paese per vecchi non risiede della maestria tecnica dell’autore o nella costruzione, robustissima, dell’intreccio e delle singole storie. Sta invece in questa dimensione realmente tragica, classica, fuori dal tempo, che assumono i fatti raccontati e che dà l’impronta al romanzo tutto, come una forza senza nome e senza forma che avviluppa e costringe ogni dettaglio, una presa che stringe e informa di sé il paesaggio e ciascuna parte dello scenario, distruggendo ogni possibilità di liberazione o di fuga.
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