Del noir, Le luci della sera, con il quale Aki Kaurismäki porta a termine la sua personalissima trilogia dei “perdenti” (assieme a Nuvole in viaggio e L’uomo senza passato), ha tutto: la dark lady, il colpo, il raggiro del malcapitato di turno, l’inevitabile caduta finale. Eppure anche se ha tutto il film di Kaurismäki non somiglia a nessun’altro. Il perché questo sia possibile va ricercato nella personalissima cifra stilistica che caratterizza la messa in scena del film, cifra stilistica che parla la voce laconica e concisa che nel corso degli anni è diventata il marchio di fabbrica del finnico Aki Kaurismäki, al punto che si fa strada la convinzione che un film siffatto avrebbe il medesimo impatto anche senza dialoghi (oppure in versione originale senza sottotitoli…).
Koistinen lavora come guardia giurata di un grande magazzino a Helsinki. Avvicinato da una donna finirà sedotto lo stretto necessario affinché una banda di malviventi, di cui la donna è complice, possa impadronirsi della combinazione utile a svaligiare una gioielleria.
Nessuna sbavatura, nessuna inquadratura buttata via, un’asciuttezza esemplare, il tutto al servizio di una storia noir che supera di poco l’ora e che per ambientazioni e fotografia richiama molto da vicino la pittura di Edward Hopper, una storia che al suo interno ne cela un’altra, quella sulla solitudine umana nei grandi centri abitati, solitudine che il finale, con la cinepresa ferma sul particolare di due mani che si congiungono, mitiga appena rimanendo fedele alla dimensione in cui “…il romanticismo si sposa con la poetica della deriva e disfatta esistenziale: il romanticismo dei perdenti” (Alberto Morsiani, Cineforum 456, pag. 39).
In concorso al 59mo Festival di Cannes.
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