Tra una trilogia rimasta incompleta e un film horror annunciato, Lars von Trier, lo dice lui, si prende una pausa con Il grande capo, commedia dove il rischio che si corre è solo e soltanto uno, quello di vedere il vetriolo che non c’è piuttosto che quello che c’è.
Il proprietario, pure lui, non c’è (il proprietario che non c’era…) o meglio c’è ma ha preferito scansare le incombenze del potere camuffandosi tra gli impiegati. Quando è la volta di prendere delle decisioni impopolari, fa in modo che queste siano attribuite al Grande Capo che vive al di là dell’Oceano. Solo che a un certo punto, visto che la fabbrica va venduta, va per forza di cose data al Grande Capo una consistenza reale per condurre le trattative con un irascibile acquirente islandese (che sembra Keke Rosberg). Niente di meglio allora che assoldare un attore disoccupato al quale fare impersonare il Grande Capo…
Lars von Trier, che all’inizio della carriera sembrava un innovatore di quelli tosti e dogmatici e che si è fatto strada a colpi di melodrammi fino a diventare un mito, tiene, visto l’espediente cui fa ricorso (lo scambio di persona insomma…), il ritmo e i dialoghi a metà tra il surreale e il comico senza raggiungere particolari vette. Il risultato è che i ben disposti ridono, e i neutrali ridacchiano (tutti comunque aspettano pazientemente di vedere dove LVT vuole andare a parare…).
La regia stavolta LVT la affida all’Automavision, una cinepresa che guidata da un computer aspetta soltanto che siano definiti i parametri di base per scegliere le inquadrature come gli pare a lei/lui.
Ci si congeda forse nell’unico modo possibile, dove l’alter ego, in nome e per conto del teatro, diventa più realista del re. Il problema rimane capire, come detto all’inizio, dove sta il vetriolo, e se c’era, verso chi era diretto (l’esternalizzazione, l’identità, fluttuante anche stavolta, i rapporti di forza all’interno dei luoghi di lavoro?).
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