James Bond begins. Potrebbe essere questo il sottotitolo di Casino Royale, ventunesima pellicola con protagonista l’agente segreto di sua maestà britannica più popolare del mondo. Come già avvenuto con Batman, la Bond saga ricomincia da zero – anzi da doppio zero, come si vede nel prologo – prendendo spunto, molto liberamente, dal primo romanzo di Ian Fleming, Casino Royale appunto, scritto nel 1952, che per motivi di diritti non era finora mai stato possibile utilizzare (anche se con questo titolo nel 1967 uscì una versione parodistica alquanto sgangherata, pur forte di cast assolutamente stellare, a partire da David Niven e da Woody Allen, nel ruolo del "cattivo").
Molto liberamente, si diceva, perchè i cliché abituali dell’odierno cinema d’azione, quello alla Bruckheimer, non hanno consentito ai tre sceneggiatori (tra cui il Paul Haggis, premio Oscar per Million dollar baby e Crash) di riproporre pedissequamente una storia come quella narrata nel libro, che, oltre a essere completamente avvolta nel clima della guerra fredda, si svolge tutta intorno a un tavolo da gioco (baccarat sulla pagina scritta, poker, variante Texas Hold’em, nel film). Così via libera, dopo un prologo in bianco e nero, livido, violento e doloroso e i successivi titoli di testa animati – canzone You know my name, cantata da Chris Cornell – con Bond in nero e gli avversari in rosso trasformati dai proiettili in carte e fiches da lanciare sul tavolo verde, a due spettacolari, adrenalici e violenti inseguimenti in altrettanti luoghi esotici, Madagascar e Bahamas, seconda patria di Fleming. Quindi la partita al Casinò Royale in Montenegro, dove l’agente segreto deve mandare alla rovina economica il banchiere del terrorismo Le Chiffre, che non è un folle desideroso di dominare il mondo, ma più che altro un ragioniere del crimine (nomen omen), disperato perché deve rifondere all’organizzazione denaro male investito. Infine, di nuovo tanta azione con i canali di Venezia dall’acqua non torbida ma limpidissima e talmente profondi da inghiottire un palazzo di quattro piani. Al di là del plot, che tutto sommato funziona soprattutto perché i numerosi colpi di scena con i doppi e tripli giochi di questo o quel personaggio, rendono l’andamento del film talmente frenetico da annullare i frequenti vuoti logici, l’aspetto più interessante di Casino Royale è indubbiamente rappresentato dalla nuova caratterizzazione del personaggio di Bond, molto più simile al cinematografico Jason Bourne o al televisivo Jack Bauer che ai precedenti cinque modelli. Daniel Craig è un agente dai capelli biondi (laddove Fleming scriveva di “una breve ciocca di capelli neri”), dall’imponente massa muscolare, dai lineamenti del viso rozzi come quelli di un boxer – molto simili a quelli del suo antagonista, interpretato dal bravissimo attore danese, Mads Mikkelsen, interprete principale dello splendido Dopo il matrimonio della Bier –, ma soprattutto è un uomo di estrazione proletaria, dai modi inizialmente rozzi e sbrigativi, poi via via sempre più raffinati e seducenti, capace di innamorarsi perdutamente della bellissima Vesper Lynd. Quasi a suggerirci che prima di Doctor No /Licenza di uccidere James Bond era un uomo vulnerabile, una spia capace di amare e di sacrificare la carriera per la sua donna. In questo ruolo Daniel Craig, pur con le sue due, massimo tre, espressioni, di cui è capace, non delude, come, del resto, la regia di Martin Campbell, colui che con Goldeneye aveva introdotto nella serie Pierce Brosnan.
Dunque, un blockbuster sicuramente ben confezionato, capace di rinverdire il mito dell’agente segreto, recuperandone quella fisicità e quell’effetto “vagamente piratesco”, che Fleming assegnava alla sua creatura. Aspetti questi da tempo perduti.
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