Ogni mese un nuovo appuntamento in compagnia di un autore esordiente. Ogni mese un viaggio unico alla scoperta di una storia, umana e letteraria. Ogni mese un incontro particolare e a suo modo emozionante. Sembra ieri, ma il tempo è volato e siamo già al quarto episodio della rubrica. Questa volta l'attenzione è stata attirata da un romanzo dal titolo suggestivo: L'assassino non è un angelo. (libri/3359/).

Subito dopo l’attenzione è stata attirata dal suo autore: Lino Bologna. Medico, esordiente a 56 anni, dopo una carriera dedicata ai propri pazienti. Non che l'età sia fondamentale, ma sicuramente sarà interessante scoprire insieme a lui i motivi che lo hanno spinto a questa sfida.

Innanzitutto grazie Lino, per la tua disponibilità a sottoporti questa intervista.

Essere tuo ospite è per me un onore, oltre che un grande piacere. Sono io, quindi, che devo ringraziare te.

Andiamo con ordine: partiamo con l’incipit del libro: "Si nasce per amore e si muore per forza…[…] Naturalmente si dovrebbe vivere per diletto". Con queste parole il professor Dondi, protagonista del romanzo, esordisce rivolgendosi al suo assistente. Sembra quasi una massima, un aforisma, una dichiarazione di uno stile di vita? E' un po' il tuo motto?

No, non proprio. E' più la considerazione di un vecchio che ha vissuto in un obitorio e che, quindi, ha ben presente la precarietà della vita. Si nasce a causa di un amplesso, dice, e si muore perché si è costretti. E questo è un dato di fatto, una realtà incontrovertibile. E non ci si può fare niente. Il modo di nascere, infatti, non si può certo scegliere. E, di solito, nemmeno quello di morire. Come vivere, invece, in gran parte, dipende da noi. E il professor Dondi, facendo le dovute considerazioni, ritiene che, tutto sommato, sarebbe il caso di volare più alti, di mantenersi al di sopra delle miserie di tutti i giorni e di godersi di più la vita, se è possibile. Dondi entra in scena così, con una specie di provocazione. Ma provocare fa parte del suo stile. E il suo carattere spigoloso e i suoi modi burberi e fuori da ogni schema, lo rendono spesso irritante. Ma anche unico, credo.

Come sai la mia prima curiosità è stimolata dai motivi che ti hanno spinto a scrivere. Io non ti conosco bene, ma immagino che, essendo medico, tu abbia dedicato la tua vita alla medicina e che tu abbia una carriera avviata e consolidata. Cosa ti ha spinto a tentare anche questa avventura?

Voglia di emozionarsi forse, o forse passione o semplicemente vanità. O anche esigenza di continuare a mettersi in gioco. O magari rifiuto a rassegnare la resa. Non so di preciso. Questa domanda me la sono fatta anch'io, più di una volta. Ma ancora non ho trovato una risposta. Una sola, intendo, unica, secca, precisa. Ne ho trovate tante, infatti. E tutte diverse. Ma forse non esiste una risposta sola. Vari fattori possono contribuire a tenere inchiodato a una tastiera un uomo che ormai potrebbe anche rilassarsi. Non ultimo la necessità di pensare che esiste ancora un futuro.

Questa risposta mi fa venire in mente un'altra frase pronunciata da un personaggio chiave del romanzo, il conte De Ambris: "C’è sempre chi nasce e chi muore. E chi continua a stupirsi di tutto…". So che nel contesto è una frase detta con un tono diverso, ma a me fa venire in mente anche il dono che hanno molte persone di stupirsi e emozionarsi davanti alla vita. E forse, per alcuni, proprio questa capacità di stupirsi sta alla base anche dell'esperienza della scrittura.

Infatti nel contesto in cui si trova, la frase che tu citi rappresenta un motto di stizza. Il conte De Ambris, che la pronuncia, infatti, non sopporta i luoghi comuni e sopporta ancora meno coloro che li fanno propri. La frase è rivolta a una donna che si dispera per l’arrivo di un nubifragio. E' evidente che il comportamento della donna lo irrita. Lo trova ovvio, banale, scontato, un comportamento da mediocri, quindi. Secondo lui, infatti, solo i mediocri possono continuare a sorprendersi. Ma non sempre è così. Chi riesce a sorprendersi rivela anche una certa vitalità e dimostra di aver conservato la capacità di appassionarsi. E di provare emozioni.

Ora che ho scoperto come è nata l'esigenza della scrittura, mi chiedo come mai tu abbia scelto proprio il genere del giallo classico. In effetti, ai giorni nostri, in cui domina il noir, o in generale un giallo più interessato ai risvolti sociali, il classico è spesso ritenuto superato; un genere che vanta grandissimi autori, ma ormai desueto.

Amo il romanzo poliziesco in ogni sua sfumatura. Ma per il giallo classico provo un sentimento diverso, quasi morboso. E' il genere che mi emoziona di più. E che conosco meglio. Nel naso ho ancora l'odore che sentivo da ragazzo quando aprivo uno di quei vecchi gialli. Odore di carta e di muffa. Odore di intrigo e di mistero. Odore di delitti e di morte, ma anche di legalità e di giustizia. Sapevo che l'assassino, alla fine, sarebbe stato smascherato. E questa consapevolezza mi faceva sentire al sicuro fin dalla prima pagina. E mi spronava a proseguire. Non avrei mai accettato che il cattivo la facesse franca. Speravo piuttosto che l'ordine, rotto da uno o più delitti, venisse ristabilito prima della fine del libro. E anche ora, quando inizio un romanzo, spero che termini nel modo più giusto. La realtà è avara di storie che finiscono nel modo più giusto. Mi fa piacere, quindi, che succeda almeno nella fantasia. E poi preferisco stare dalla parte dell'investigatore, addentrarmi con lui fra le pieghe dell'enigma, seguire le indagini. E mantenere viva l'attenzione su quegli uomini che credono nella giustizia e che, nonostante i loro inevitabili difetti, si adoperano affinché questa trionfi. In Italia, poi, gli epigoni di Hammett e di Chandler non mancano. E ve ne sono di bravi. Scarseggiano invece gli autori di gialli classici. Eppure gli appassionati di questo genere sono numerosi. Lo dimostra il fatto che le grandi case editrici continuano a ristampare i classici. E che continuano a venderli. E allora perché non provare a dare un contributo per colmare questa lacuna?

Quindi tu pensi che il giallo classico non abbia esaurito tutto ciò che aveva da dire?

Certo. Sono convinto che il giallo classico abbia ancora molto da dire. Specialmente se si rinforzano i suoi punti deboli: una maggior attenzione al contesto sociale in cui si svolge l'azione, per esempio, e la caratterizzazione dei personaggi. Spesso, infatti, i maestri di questo genere hanno analizzato con esasperante pignoleria l'enigma ed hanno invece trascurato l'analisi dei risvolti sociali e la definizione dei personaggi. Di conseguenza, i protagonisti di questi romanzi si ritrovano a muoversi fra le maglie della trama come fantasmi, figure diafane, senza un carattere, senza una storia. Credo, inoltre, che nel giallo cosiddetto classico si debba porre particolare attenzione al rigore e alla correttezza con cui vengono trattati gli argomenti. Arricchirlo, quindi, di quella scientificità che spesso manca nei generi affini. La stesura di un giallo classico non può esimersi da una solida preparazione scientifica. La fantasia non basta. Scrivere bene nemmeno. E' necessaria anche una certa dimestichezza con varie discipline, come la medicina legale, la criminologia, la balistica, la psicologia criminale e conoscere i vari metodi adoperati dalla polizia scientifica nello svolgimento delle indagini. I lettori non si possono imbrogliare. Certi autori oggi si vantano di scrivere i loro polizieschi pressoché di getto, aiutati da una naturale ispirazione, io credo invece che, per quanto riguarda il giallo classico, si debba portare avanti il lavoro a fatica, con lo scrupolo e la precisione di un'operazione matematica, in modo che, alla fine, quando si va ad assemblare i vari pezzi, questi devono collimare. Un autore di questo genere di romanzi, in pratica, prima di iniziare a scrivere, deve avere ben chiara in mente la soluzione del caso ed anche tutti i sistemi utili a raggiungerla. E' da lì che deve partire per costruire con scrupolo e rigore scientifico tutti i passaggi intermedi dell'opera. Alla luce di questo, quindi, credo proprio che il giallo classico abbia davvero ancora molto da dire. E che, anzi, avrà presto una sua giusta rivalutazione.

"Quando per un enigma criminale esistono tre soluzioni possibili….mai trascurare la quarta". Questa è una frase che pronuncia il professor Dondi, analizzando le possibili soluzioni del caso. Una frase che avrebbe potuto pronunciare anche Sherlock Holmes, a mio parere. Senza dubbio, infatti, il tuo personaggio ricorda e rievoca, seppur modernamente, alcuni dei più grandi investigatori classici e, forse, Holmes in modo particolare. E' solo una sensazione mia, o, in effetti, l'influenza c'è?

Con tutta probabilità, la tua sensazione è giusta. E' facile che in Dondi vi sia qualcosa del mitico Sherlock Holmes. Anche lui, infatti, per condurre le indagini si affida al metodo deduttivo, e poi è alto e fuma la pipa. E pure lui è stato creato da un medico: a Conan Doyle mi accomuna, se non altro, una laurea in medicina. Chi è, inoltre, quell'investigatore scientifico che, dal 1887 in poi, non ha subito il fascino del Maestro? E' difficile scorrazzare fra le pagine dei libri senza che qualche emozione non rimanga addosso. Sarebbe come risalire a nuoto un fiume senza bagnarsi. Qualcosa di Sherlock Holmes, quindi, in Dondi c'è di sicuro. Ma non solo. Di sicuro c'è anche qualcosa del dottor Thorndyke, il capostipite indiscusso di tutti gli investigatori scientifici, e di Van Dusen, chiamato anche la Macchina Pensante per la sua stratosferica cultura, e del cervellotico e un po' ridicolo Poirot e del raffinato e antipatico Philo Vance, e di Padre Brown, il piccolo prete di Chesterton. E forse di altri.

 

Ruberò ancora una volta le parole a un tuo personaggio per porti una domanda: "Un uomo che vale il professore, acuto, intelligente, capace. Ma non ha tatto. […] Lei comunque lo segua, lo sopporti, riceverà molto in cambio. E' un uomo solo, in fondo. Solo con i suoi pregi e i suoi difetti. Solo col suo lavoro. Soprattutto è solo coi suoi cadaveri. Ha vissuto per loro. Per loro ha rinunciato a una famiglia, non ha mai fatto vacanze, non si è mai concesso niente. E questo loro lo sanno. E gli sono amici. Lo ascoltano quando lui li interroga. Rispondono alle sue domande, si confidano. Gli rivelano i loro misteri. Per lui non sono solo corpi inanimati, macabri reperti o resti raccapriccianti, sono degli amici, semplicemente…"

Un ritratto nitido del professor Dondi. Preciso e a tratti forse un po' inquietante. Quanto di te c’è nel professore?

Molto credo. Anche se, forse, a prima vista, non sembra. Lui è alto, per esempio, io no. Lui beve e fuma. Io di fumare ho smesso anni fa e l'alcol mi fa venire il mal di testa. Lui vive per il suo lavoro, io lavoro per vivere invece e, quando posso, mi dedico ad altro. E magari scrivo. Però è medico pure lui. Abbiamo quindi in comune una formazione scientifica. E una professione che continuamente ci mette a contatto con la sofferenza e con la morte. E questo non è poco. Avere presente in ogni momento quanto può essere precaria e fragile la vita, porta a dare importanza a certe cose. E a darne meno ad altre. E porta soprattutto ad aggrapparsi all'ironia e ad un pizzico di incoscienza per vivere appieno il presente. E per rallentare lo scorrere impietoso del tempo.

Un tema molto bello, che forse non emerge al 100% dal romanzo, ma che è introdotto e si legge tra le righe è quello del rapporto tra maestro e discepolo che c'è tra il professor Dondi e il suo assisternte, il dottor Milani e che ricorda, ancora una volta Sherlock Holmes e il dottor Watson. Tu hai avuto dei maestri nella medicina, come nella scrittura?

Ovviamente si. Ma devo ammettere che provo per i "maestri", quelli ufficiali, intendo, una specie di idiosincrasia. Ciò è dovuto in parte agli scappellotti che mi sono preso alle elementari. Ma in parte è dovuto anche al mio carattere. Ho sempre tollerato con difficoltà i sermoni, i predicozzi, le paternali. E tutti coloro che salgono in cattedra. Il conformismo ipocrita non è fatto per me. E forse nemmeno la scuola. Lo dimostra la mia storia. A diciassette anni, infatti, ho lasciato gli studi e mi sono tuffato nel mondo del lavoro. Ho fatto mille mestieri, ma a ventitré anni ero ancora in cerca di quello che mi calzava meglio. E avevo solo la licenza media. Allora ho ripreso a studiare. Sul serio questa volta. E in sette anni sono diventato dottore e ho iniziato a curare la gente. E a tacere il mio passato. Ancora oggi,sono convinto che i maestri, quelli veri, si trovano anche all'angolo di una strada o in una bettola o sotto un ponte o fra la gente comune, nel mondo di tutti i giorni. La vita non si può solo ascoltare. Si deve anche vivere.

A questo punto, però, sono sicura che i lettori si chiederanno come L'assassino non è un angelo, abbia visto la luce. Come sei arrivato alla pubblicazione?

Aspettando. Erano i primi anni Novanta, infatti, quando ho spedito per la prima volta L'assassino non è un angelo a una casa editrice. Avevo scelto la Longanesi. Sapevo che pubblicava anche gialli e che, a volte, dava spazio ad autori esordienti. Ma sapevo pure che era difficile ottenere una risposta. Solo una settimana più tardi, invece, è avvenuto il miracolo. All'ora di pranzo di un giorno che sembrava uguale a tutti gli altri, infatti, ha trillato, il telefono. Era il direttore editoriale di Guanda e editor di Longanesi. Voleva mettermi al corrente che gli era capitato fra le mani il mio manoscritto e che lo aveva letto. E che gli era piaciuto molto. E che sarebbe stato pubblicato dopo una revisione da parte del patron del gruppo. Credevo fosse un sogno. Tutto sembrava perciò aver preso il via, ma mi ero illuso troppo presto. In seguito, infatti, per una serie di circostanze sfavorevoli il mio manoscritto lasciò la Longanesi e approdò alla Garzanti. E io fui lasciato nel limbo. Mesi e mesi di silenzio. E quando, finalmente, giunse la telefonata dell’allora direttore editoriale di Garzanti, era solo per informarmi che, purtroppo, non esistevano in quel momento le condizioni adatte per procedere con la pubblicazione. E il bel sogno svanì. Tuttavia, mi considerai più fortunato di altri. Avevo avuto, se non altro, l'opportunità di sognare. L'assassino non è un angelo, comunque, finì in un cassetto e fu presto dimenticato. Gli anni intanto passarono. Finché un giorno, per caso, lessi da qualche parte che la ConTatto Edizioni di Lerici organizzava un premio di Letteratura Poliziesca, il Lerici Noir. Allora, ritirai fuori il manoscritto e lo inviai alla segreteria del premio. Alle opere selezionate veniva garantita la pubblicazione. E L'assassino non è un angelo fu selezionato. E vide, così, la luce.

Sei soddisfatto del risultato e consiglieresti a chi ha un romanzo nel cassetto di osare?

Audere semper., direbbe Dondi. Osare sempre. Per riuscire nella vita, questo motto è fondamentale. E poi Fortes fortuna iuvat, la fortuna aiuta gli audaci e respinge i timidi, timidosque repellit. Per me quindi ha già risposto il professore. Posso aggiungere comunque che è meglio evitare l'invio di manoscritti non sufficientemente curati. La prima occhiata è spesso decisiva. E che si deve scegliere l'obbiettivo da centrare in modo scientifico. Spedire un poliziesco a una casa editrice che si occupa solo di poesia, ad esempio, sarebbe un'operazione fallita in partenza. E poi mai tralasciare una valutazione sull'onestà dell'editore. Gatti e volpi non si trovano solo nelle favole. In conclusione, quindi, osare sempre, ma con oculatezza.

Abbiamo chiesto a Alessandro Zanoni, direttore editoriale della ConTatto Edizioni, quali sono le caratteristiche vincenti di questo romanzo e perché ha deciso di puntare su questo esordiente.

Lino Bologna con il suo L'assassino non è un angelo, si classificò al secondo posto della seconda edizione del Premio di Letteratura Gialla Città di Lerici, indetto dalla ConTatto e così si conquistò la pubblicazione. Il punto di forza di Bologna è che egli raffigura il passato della letteratura, che non muore, ma sopravvive con una sua cristallina dignità.

E ora pongo la stessa domanda a te, Lino. Perché leggere L'assassino non è un angelo?

Perché non segue la moda. Perché non è un dizionario di parolacce né un manuale di sesso crudo. E perché non è nemmeno uno squallido resoconto dei mali che affliggono la società, né, ancora meno, una compiaciuta ostentazione di impegno sociale. Vale la pena di leggerlo, quindi, proprio perché è un giallo classico, semplicemente. E perché lo consiglia uno che, modestia a parte, di gialli se ne intende.

E ora dimmi tre aggettivi con cui definiresti il romanzo.

Rigoroso, colto, maturo.

E per concludere, ringraziandoti per la tua disponibilità, una domanda ormai di rito. Incontreremo nuovamente in futuro il professor Dondi e il dottor Milani?

Temo proprio di sì! E' già pronto, infatti, un altro episodio con gli stessi protagonisti. il vecchio professor Dondi scalpita. E il dottor Milani pure. Entrambi vogliono uscire, vedere di nuovo la luce. E tenerli a bada sarà davvero difficile. Credo quindi che presto ce li ritroveremo fra i piedi.