Dopo il remake del 2003 del prototipo del ’74 a firma di Tobe Hooper (ispirata alle gesta assassine di tale Ed Gein, contadino necrofilo e cannibale realmente esistito dedito alla realizzazione di maschere e soprammobili facendo uso dei resti delle proprie vittime), al prequel di oggi.

All’origine un parto allucinante in un mattatoio con relativa comparsa nella diegesi di Leatherface, la cui predilezione per la dissezione dei corpi, animali e umani, con una motosega è ben nota, mentre sullo sfondo incombe il Vietnam che a conti fatti sembra meglio di quello che attende i fratelli Dean ed Eric Hill in viaggio di piacere con loro fidanzate prima di imbarcarsi per il fronte e che causa un incidente automobilistico finiscono col cadere nelle mani della famiglia adottiva di Leatherface, gli Hewitt, le cui preferenze antropofaghe sono altrettanto note.

Alle letture consuete che hanno accompagnato il capolavoro di Hooper, la perdita d’innocenza della generazione sessantottina, la famiglia che fallisce la sua missione di coesione sociale allevando al suo interno mostri terribili, il film non riesce ad aggiungere alcunché. Va invece per amore di cronaca segnalata una curiosa deriva che per un bel tratto fa sembrare il film stesso un vero e proprio remake, seppure apocrifo, nientemeno che di Full Metal Jacket.

Merito (o colpa?) dell’icona oramai sbracatissima rappresentata da R. Lee Ermey che nei panni dello sceriffo Hoyt sembra un redivivo sergente Hartmann che con lo stesso sadismo che lo vedeva all’opera nel capolavoro di Kubrick, si dedica stavolta, nell’attesa del supplizio finale, a raddrizzare la schiena ai due fratelli, in particolare a quello accusato di codardia visto che non ha nessuna intenzione di partire per il fronte.

Tra svariate altre citazioni, dal già detto FMJ a La maschera del demonio di Bava, Non aprite quella porta - L'inizio di Jonathan Liebesman, non fa mancare nulla in termini di strazio della carne, pagando però presto pegno alla necessità di alzare sempre più il livello di macellazione per non restare indietro alla scena precedente. Così tra una carneficina e l’altra, tra l’amputazione nr. 1 e quella nr. 2, tra lo squartamento nr. 3 e quello nr. 4, l’assuefazione si fa ben presto strada.

Solo, quasi inutile aggiungerlo, per appassionati del genere.

Sergio Gualandi

Il prequel del remake del celebre The Texas Chainsaw massacre, firmato nel 1974 da Tobe Hooper, vero e proprio caposaldo del new horror anni Settanta.

Questo è Non aprite quella porta: l’inizio, diretto da Jonathan Liebesman (al suo secondo lungometraggio dopo un altro mediocre horror, Al calare delle tenebre, 2003), che, coadiuvato dai due creatori del prototipo, Hooper e lo sceneggiatore Kim Henkel, ha posto il suo mestiere al servizio del produttore-regista Michael Bay, giovane ma potentissimo tycoon dell’industria cinematografica hollywoodiana, già autore di alcuni tra i peggiori blockbuster di tutti i tempi, film scellerati come Armageddon e Pearl Harbour. Del resto, ormai in terra americana la produzione horror si è ormai ridotta alla realizzazione in serie di rifacimenti di film anni Settanta (come Il prescelto, Le colline hanno gli occhi, Il presagio, L’alba dei morti viventi) o di pellicole orientali di successo (come The Ring, The Grudge, Dark Water). Per lo più riletture mediocri e banali, volte a sfruttare brand conosciuti (come nel caso di questo film) o schemi narrativi già collaudati. Segno evidente di una grande stanchezza creativa.

Texas, 1939. In un mattatoio una giovane grassona partorisce un neonato deforme, che abbandonerà in un cassonetto dei rifiuti. Ma il piccolo ben presto viene raccolto da una donna e adottato da una “vera”, si fa per dire, famiglia.

Texas, 1969. Due fratelli, in procinto di partire per il Vietnam, accompagnati dalle rispettive fidanzate, si concedono una breve vacanza. Nel corso del viaggio si trovano coinvolti in un grave incidente automobilistico. I ragazzi vengono soccorsi dallo sceriffo Hoyt, membro della famiglia Hewitt, che ha in Thomas “Leatherface”, il suo elemento più rappresentativo...

In genere il secondo episodio di una serie si caratterizza per una maggiore presenza dell’elemento d’azione – nel caso dell’horror, per una maggiore efferatezza -, dal momento che non è necessario dare spazio alla presentazione dei personaggi e delle loro psicologie, già note allo spettatore. Fedele a questa regola, Liebesman costruisce il film sulla devastazione dei corpi palestrati dei malcapitati di turno ad opera della mitica motosega di Faccia di cuoio, con tanto di interiora in bella mostra. Il problema è che le scene efferate si ripetono tutte uguali senza crescendo di tensione. Come in un film porno tutto viene mostrato immediatamente e superficialmente: non vi è alcun interesse nel penetrare nei più oscuri meandri della psiche, come era stato capace di fare il film del '74, dove le regole dello slasher movie venivano declinate al fine di descrivere le pulsioni più oscure della fascista e violenta provincia americana, dove ognuno deve fare i conti con la legge del più forte. A questo proposito suonano pretestuose, quasi ridicole, le didascalie che pongono come causa della furia omicida la decadenza economica della landa.

Certo, rispetto al film del 2003, questo prequel si presenta dichiaratamente come un b-movie, come evidenziato dai dialoghi crudi e scarni e con una certa dose di ironia, soprattutto quando in scena troviamo Lee Ermey, che sciommotta il suo leggendario kubrickiano sergente Hartman, come peraltro, già in Sospesi nel tempo di Peter Jackon. Forse l’unico aspetto interessante del film è il fascino perverso del personaggio di Leatherface. Ma questo non basta a sollevare il film da una mediocrità niente affatto aurea.

Vito Santoro