«Alla luce del giorno tutto riacquista una sua apparente normalità. Da questa parte c’è la realtà, con il lavoro e la spesa e la famiglia e le rate del mutuo. Dall’altra le cose che restano, e forse è meglio che restino, misteriose.

Il telefono che squilla nel cuore della notte, ma quando sollevi il ricevitore nessuno risponde. La gente che registra i messaggi dei morti. Gli assessori che organizzano futuri Stati nazisti. Ottantamila euro in biglietti di grosso taglio, nascosti in una scatola da scarpe.

Due cadaveri con la gola tagliata.»

Alberto Mendini, pubblicitario cinquantenne un tempo sulla cresta dell’onda e oggi sull’orlo del fallimento, riceve una di quelle proposte che non si possono rifiutare. L’assessore alla cultura della Regione gli chiede di organizzare, in cambio di un bel pacco di soldi, nientemeno che la campagna per l’“Anno dell’Identità Celtica”. Mendini è perplesso: di Celti, da quelle parti, per quello che lui ne sa, non se ne sono mai visti. E i soldi sono tanti, forse addirittura troppi...

La terza scorribanda narrativa di Tullio Avoledo si svolge in una Regione che non c’è, ma potrebbe benissimo esserci. In un’Italia governata da un partito che si chiama “Italia in Marcia”, e al cui interno si annida un’organizzazione separatista internazionale che punta al distacco del NordEst e alla creazione di un nuovo Stato – razzista, e fondato sulla “comune identità celtica” – a cavalcioni delle Alpi.

Alberto Mendini si trova sballottato tra morti che parlano, esperimenti di psicofonia, astronauti americani esiliati in Italia, assessori deliranti, giovinette ipersessuali: tutto un circo di artisti del segreto e del complotto, dove quanto più un personaggio è folle tanto più siamo costretti a dire: «Sì, lo conosciamo; è già tra noi».

Con Lo stato dell'unione Avoledo scrive insomma un nuovo pastiche letterario di generi dopo L'elenco telefonico di Atlantide e Mare di Bering: un thriller che è anche un "romanzo fantapolitico del presente" e che racconta oggi, dell’Italia, tutto quello che abbiamo sotto gli occhi, e che non si può dire.