Indecifrabile, indefinibile questo Visto per Shanghai del cinese Qiu Xiaolong, classe 1953, qui al secondo romanzo di una serie iniziata nel 2000 e a tutt’oggi arrivata al quarto episodio con regolare cadenza biennale.
A una prima lettura, infatti, la vicenda ci attrae sia per l’ambientazione esotica (la metropoli cinese evocata dal titolo, ma anche le vaste campagne che la circondano) sia per l’intrigante scelta temporale (i primi anni Novanta, subito dopo i fatti di Piazza Tien An Men e in piena svolta “capitalistica” del governo di Pechino).
Subito dopo ci assale però il sospetto (giustificato in verità dalla biografia di Xiaolong, emigrato negli USA nel 1988, proprio alla vigilia del tentativo di democratizzare il sistema cinese) che, per soddisfare il palato americano e, in prospettiva, qualche produttore hollywoodiano, l’autore abbia ecceduto in autobiografismo e colore locale: ad esempio l’ispettore capo Chen Cao, trentacinquenne, è un po’ troppo costruito con la sua passione adolescenziale per l’inglese e la sua cautela per le direttive ancorché morbide del partito; con i versi di poesie cinesi citati a ogni piè sospinto e le sue raffinatezze da gourmet post-wolfiano e post-carvalhiano; con i suoi abbandoni romantici di fronte alla nordica bellezza dell’ispettrice americana Rohn e il suo sperimentato realismo di fronte alla collusione tra la polizia e le famigerate Triadi.
Ma, appena alzato il ponte levatoio della nostra fiducia incondizionata, ecco che l’autore ci offre uno splendido spaccato della schizofrenica società cinese: ancorata, in campagna, a un passato (remoto e recente) che non tramonta (dalle tradizioni buddiste, confuciane e taoiste all’ubriacatura per Mao e la Rivoluzione culturale); protesa, nelle città, a imitare uno stile di vita materialistico ed edonistico tipicamente occidentale. E così ricadiamo nella fascinazione.
L’intreccio d’altra appare l’elemento meno interessante del libro: un cadavere sfigurato da numerosi colpi d’arma da taglio, ritrovato in un parco di Shanghai, e la scomparsa della moglie di un collaboratore cinese di giustizia, che ha trovato protezione negli USA, offrono infatti il destro all’autore per sviluppare con insolita lentezza la trama che solo negli ultimi capitoli ha una brusca accelerazione e, a dire il vero, una non chiarissima spiegazione finale da giallo all’inglese.
Ma è pur vero che la coppia di investigatori, il già citato ispettore capo Chen (poeta, traduttore dall’inglese, poliziotto in carriera) e il suo agente Yu (afflitto dai problemi abitativi di una normale coppia cinese), si esibisce in un’intrigante serie di agili slalom tra le direttive del partito (il segretario Li dalle parentele e amicizie non sempre cristalline), le esigenze della giustizia, le vischiosità burocratiche, le minacce mafiose, la corruzione di poliziotti; mentre Chen già fidanzato con la figlia di un importante esponente del partito, subisce il fascino esotico ma pudico della collega ispettrice venuta dagli USA per prendere in consegna la moglie del loro collaboratore.
E così, tra le more di un’indagine che non decolla per due terzi del libro, veniamo però amabilmente informati sui problemi dell’emigrazione clandestina, dell’improvviso arricchimento di fasce ristrette della popolazione, della forzata coabitazione di nuclei familiari, dei problemi scottanti insomma della Cina contemporanea.
Avrete capito allora perché si arrivi alla fine con un senso di irritata insoddisfazione, schizofrenico almeno quanto l’impetuoso sviluppo cinese: vorremmo continuare da un lato a leggere le gesta del nostro Philo Vance dagli occhi a mandorla, ma dall’altro coviamo il legittimo sospetto che l’autore abbia astutamente confezionato un prodotto perfetto per il lettore tipo americano (e occidentale); troppo perfetto per i nostri gusti.
E siamo così costretti a evitare di sbilanciarci in attesa che le altre avventure di Chen Cao dissipino, o rafforzino, i nostri dubbi.
Voto: 7
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