Charles Gounod fu figlio d’arte. Suo padre, François-Louis, fu un pittore sfortunato e la madre, Victoire Lemachois, una pianista e insegnante di pianoforte. Charles nacque a Parigi St.-Cloud nel 1818 e vi morì nel 1893. Dimostrò subito un grande talento per la musica e per la pittura. A undici anni entrò con una borsa di studio nel Liceo St.-Louis, dove ottenne il baccalaureato nel 1836. Fu allievo di Reicha. Iscrittosi al Conservatorio, studiò contrappunto e fuga con Halévy e composizione prima con Lesueur, poi con Paer.
Aveva ventun anni, quando vinse il Grand Prix de Rome con la cantata Fernand. A Villa Medici conobbe il domenicano Lacordaire, la cui amicizia fu all’origine di una sua lunga e tormentata crisi mistica, per cui fu sul punto di abbracciare il sacerdozio. Amava firmarsi “Abbé Gounod”. Combattè tra la carne e il diavolo; in certi ambienti lo definirono "il monaco cicisbeo".
Tornato in Francia, passò prima attraverso l’Austria e la Germania. A Vienna diresse alla Karlskirche il suo Requiem. A Lipsia conobbe Mendelssohn.
Pauline Viardot lo strappò a una seconda crisi mistica. Per lei Gounod scrisse l’opera Sapho.
Nel 1852 sposò Anne Zimmermann, figlia di Pierre, famoso insegnante di pianoforte del Conservatorio, il quale una volta respinse Louis Moreau Gottshalk, il prodigio di New Orleans, farfugliando che l’America, terra di selvaggi e di macchine a vapore, non poteva dare pianisti.
Gounod, cinque anni dopo, fu ricoverato in una casa di salute a causa di un grave collasso mentale.
All’inizio della guerra franco-prussiana, si rifugiò a Londra, dove trascorse anni agitati a motivo della sua relazione con Georgine Weldon, una cantante inglese, che al termine del rapporto sequestrò il manoscritto del Polyeucte. Gli fu restituito dopo un lungo processo.
Tornato a Parigi, si dedicò esclusivamente alla musica sacra. Scrisse composizioni mirabili quali Mors et vita e la Messe à Sainte-Cécile.
Nel 1888 fu nominato Grand’Ufficiale della Legione d’Onore. I suoi capolavori furono il Faust e la celebratissima Ave Maria.
La sua Marcia funebre per una marionetta, resa popolarissima quale sigla musicale dei film gialli di Alfred Hitchcock, non trova riscontro, per originalità, in nessun altro compositore. E’ un pezzo unico, un classico, una genialità. In essa si esaltano al contempo drammaticità, leggerezza scherzosa e malinconia.
Fu Gounod stesso a riportare sulla partitura originale alcune note esplicative, quali: "La marionetta si spezza" " Mormorii di rimpianto dei partecipanti al funerale" "Il corteo funebre" "Alcuni dolenti si fermano per rifocillarsi" "Con maggior garbo tornano a casa".
E’ un brano facile a fischiettare e a canticchiare, perché è molto orecchiabile. Ma, se lo si ascolta profondamente, è anche un pezzo che fa venire i brividi (basta sentire le percussioni), perché alla marionetta (un simbolo) possiamo dare un nome e noi identificarci nella mesta processione che tanto mesta poi non è e che finisce, prima del ritorno a casa, a tarallucci e vino.
I fili cadono. La marionetta è accasciata al suolo. Defunta. Il clarinetto imperversa. Lo seguono gli ottoni. Il fagotto acuisce la drammaticità dell’evento. Poi lo scherzo. Il ripercorrere la vita della marionetta. La processione con i rimpianti dei partecipanti al funerale. Quindi l’abbandono al suo destino. Si mangia e si beve. Poi si rincasa. Terribilmente tragico. Nascita, vita, morte e dimenticanza. Tutto d’un fiato. In un fischio quasi liberatorio.
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