"Il giorno in cui ho ucciso mio padre era un giorno chiaro, di una chiarezza diffusa, senza ombre, senza contrasti.” Questa è la frase con cui iniziano il primo e l’ultimo capitolo del romanzo. In mezzo, cosa c’è? Dolore e odio. Dovuto a un amore non corrisposto, quello di un padre verso il proprio figlio. La mancanza di un sentimento, che mina fin dall’infanzia la stabilità emotiva del protagonista, che si racconta in prima persona.
E’ impossibile non accostare, per tema e narrazione, Il giorno che ho ucciso mio padre a Lettera al mio giudice di Georges Simenon. Ebbene, il paragone incredibilmente regge.
Il parricida è in carcere e si trova costretto a raccontare la storia che l’ha portato all’omicidio. Inizia da un episodio dell’infanzia, che coinvolge lui e i suoi genitori.
La narrazione, spesso, si interrompe con la descrizione di particolari minuziosi, ma non necessari nell’economia del racconto. E’ come se egli, nonostante l’apparente indifferenza con cui narra della sua vita, abbia bisogno di evadere dalla sostanza del racconto per un’autodifesa emotiva.
L’indifferenza con cui l’anonimo protagonista espone i particolari più sconvolgenti della sua vita è in netto contrasto con quanto racconta. Non cerca conforto, non vuole pietà, non ha bisogno di condividere con altri. Deve raccontare e lo fa, nella maniera più asettica possibile. Ma è proprio questo stridore a portare alla luce il dolore, e più la narrazione è indifferente, più il non detto è assordante.
Sabino inizia dalla fine: l’omicidio del padre, il solo modo che ha trovato per ristabilire l’ordine, un ordine andato perso da quell’episodio dell’infanzia.
Mario Sabino, giornalista brasiliano, è al suo esordio come romanziere. Ci auguriamo che i suoi prossimi libri possano equiparare questo, e che vengano tradotti in Italia.
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