Nonostante siano passati più di trenta anni dalla sua morte, le foto di Diane Arbus non smettono di emanare ancora oggi una sottile inquietudine e un fascino morboso. Sono immagini di uomini e donne deformi, di ritardati, di moribondi e cadaveri. Fotografie in bianco e nero, formato quadrato, in cui l’artista newyorkese evita composizioni studiate, pur possedendo manierismi ben riconoscibili, evocanti i volti vivi-morti dei dagherrotipi e l’imbalsamato formalismo del museo delle cere. Il suo intento principale era, infatti, quello di fissare una umanità sì disagiata e freak, ma in uno stato di sostanziale normalità. Queste persone erano da considerarsi, secondo Diane, degli aristocratici, in quanto, già nate con dei forti traumi, avevano ormai superato le loro prove nella vita.

Nel libro Diane Arbus, sua biografia dell’84, scritta da Patricia Bosworth, da poco ripubblicata da Rizzoli, l’interesse maniacale della fotografa per questa umanità così "orribile", disperata e marginale, viene ricondotto alla visione di Freaks di Tod Browning, produzione Metro-Goldwyn-Mayer del 1931, forse la pellicola più "maledetta" della storia del cinema. La Arbus, che aveva già scattato foto di gemelli e nani, tra un servizio di moda e l’altro per riviste come Vogue, Glamour e Harper’s Bazar, restò folgorata dalla visione del film perché i freaks protagonisti non erano mostri di fantasia, ma persone reali. Le deformità, le anomalie umane “l’avevano sempre eccitata, sfidata e terrorizzata – scrive la Bosworth – perché sfidavano tante convenzioni. Talvolta pensava che il proprio terrore fosse legato a qualcosa di radicato nel subconscio. Osservare lo scheletro umano o la donna barbuta le richiamava un sé oscuro, innaturale, nascosto”.

La fotografa iniziò così a frequentare l’Hubert’s Museum sulla 42°, uno degli ultimi freak show allora rimasti. Secondo la sua biografa, la visione del ragazzo foca, della donna cannone, dell’uomo con tre gambe, le provocò una eccitazione ansiosa, accompagnata da sudorazione e palpitazioni. Quindi, non senza una certa fatica, vincendo le prime diffidenze, convinse i freaks a lasciarsi riprendere dal suo obiettivo fotografico. Iniziò così il mito.

Quale molla abbia spinto la Arbus a scatenare il suo lato notturno, quel male autentico e distruttivo, che è senza alcun dubbio alla base dei suoi lavori, è difficile da ipotizzare. Probabilmente per questa ragione, il regista Steven Shainberg (qui al suo terzo film dopo Hit me e Secretary), la sceneggiatrice Erin Cassandra Wilson e la protagonista Nicole Kidman nel trattare la vicenda umana della fotografa americana hanno optato, invece di una tradizionale biopic, per “un ritratto immaginario”, come recita il sottotitolo di Fur.

La pelliccia, cui fa riferimento il titolo del film, è quella prodotta dai genitori di Diane e indossata dalle belle modelle, bloccate dal rigore formale della macchina del di lei marito Allen Arbus; ma anche e, soprattutto, quella che ricopre Lionel, il misterioso inquilino affetto da ipertricosi, venuto ad abitare al piano di sopra proprio nel momento in cui la donna inizia a maturare una certa intolleranza nei confronti del conformismo del coniuge. Sarà proprio quest’uomo, dall'aspetto molto simile a quello della Bestia del cartoon disneyano, a guidare la Arbus, magnificamente interpretata dalla diva australiana – sguardo smarrito e affascinato dinanzi al deforme, gesti trattenuti – nel suo mondo di travestiti, nani, donne dominatrix, giganti. Un mondo nei confronti del quale la fotografa inizia a provare una sempre crescente attrazione, non solo voyeuristica ma anche di natura sessuale.

Tutto quello che è narrato nel film è frutto di invenzione. Nell’appartamento di Washington Place, al di sopra degli Arbus, viveva in realtà l’attrice Ali MacGraw; la prima macchina fotografica usata da Diane fu una Leica, sostituita dalla Rolleiflex solo a partire dal 1962, cioè quattro anni dopo il periodo in cui il film è ambientato. Del resto, l’intento di Shainberg è quello di compiere un viaggio nel cuore di tenebra di Diane, nella camera oscura della sua testa. Di qui la scelta di dare al film un'atmosfera quasi onirica, con citazioni favolistiche da La bella e la bestia e Alice nel paese delle meraviglie, e di far vivere gli Arbus in una sorta di appartamento labirinto, dalla chiara valenza metaforica, che svela prospettive alla Escher con tanto di botole che si aprono sul soffitto. Così la Arbus si trasforma nella ipnotica esploratrice di un degradato universo underground, abitato da ogni sorta di diversi e reietti, che costituiscono lo specchio attraverso il quale ella stessa tenta di confrontarsi con il proprio oscuro malessere.

Il punto di vista adottato dal regista sta tutto nella sua identificazione con lo sguardo voyeuristico e al tempo stesso pudico della Arbus, o per meglio dire, con quello che lui attribuisce alla Arbus. E la scelta è sottolineata dai numerosi primi piani degli occhi della Kidman e dalla sostanziale assenza di morbosità nelle inquadrature dei freaks, dove rinveniamo quasi la stessa commossa partecipazione del Tim Burton di Edward mani di forbice e Big fish e del Lynch di Elephant man.

Ma l’esito complessivo del film è indebolito dalla relazione tra Diane e Lionel, convenzionale e poco convincente, incentrata tutta sull’ovvio concetto della relatività di ogni “bellezza” o “bruttezza”, con pesanti cadute nel kitsch e nella comicità involontaria: si pensi alla scena in cui il marito della Arbus per competere con l’uomo scimmia si fa crescere una barba, palesemente posticcia; o al cappotto di peli che Lionel lascia alla donna in eredità.

Troppo poco per una storia d’amore considerata all’origine di una produzione artistica, caratterizzata da una serie di album, cataloghi, mostre, destinati a turbare i benpensanti e a rappresentare quella “sovversione estetica”, che, secondo Susan Sontag, aveva promosso negli anni Sessanta “la vita come spettacolo orrorifico come antidoto alla vita come noia”.

 

Per il libro: Patricia Bosworth, Diane Arbus (Rizzoli, 2006) ISBN 8817014397, p. 346, € 18.50