“Sparami… se no vaffanculo…" l’ombra sul fondo mise fuori la testa, e si alzò in piedi come una macchia nera nello scarno controluce del deposito "Dài sparami, coraggio, soldatino...”

E si incamminò a braccia larghe come un Gesù Cristo in croce gonfiando a ogni passo la tuta di felpa grigia.

Coglione, mormorò il caporale aggiustandosi il calcio contro la spalla senza staccare l’attenzione dal suo avversario, lo teneva sotto tiro, perfettamente inquadrato, nitido, mentre il resto del mondo gli sembrava opaco e sbiadito. Solo il bersaglio era sempre a fuoco nonostante gli spostamenti nervosi del superiore.

“Ma non vorrai sparargli per davvero…”

“Taci.” disse il caporale.

“Cazzo… cazzo… tu sei fuori completamente, come quell’altro matto, siete tutti e due da ricovero, e poi dite a me che sono uno scoppiato per quelle quattro canne che mi faccio…” e si curvò verso terra tappandosi le orecchie con le mani.

Il silenzio scese dentro di lui. Era solo contro la vita del suo avversario. Tutto attorno a lui si paralizzò. Nessuna vibrazione. Calma piatta. Anche se la sua realtà in quel momento non era il mare aperto, ma un angolo di campagna abbandonata e circondata di filo spinato. Tutto perse sostanza, l’aria assunse una colorazione plumbea, un sapore spigoloso, metallico, quella che il caporale conosceva bene, quella del giorno dell’eclissi di sole.

...Vincenzo io ti ammazzerò... se un’arma non serve per sparare a che cosa l’hanno inventata a fare, pensò il caporale e accarezzò la canna fino al mirino, poi sparò un primo colpo, senza le mani sudate, né palpitazioni, solo per rispettare una logica, e regole che non aveva stabilito lui, ma che aveva solo accettato gridando un collettivo lo giuro in quel giorno di settembre, sotto il sole che sferzava la schiena, nel cortile della caserma che puzzava di nafta ...sei troppo stupido per vivere... l’energia dell’arma lo caricò di una nuova forza, la forza del potere, di sentirsi padrone dell’esistenza altrui, come fosse qualcosa di mistico… sparò una seconda volta, senza sensi di colpa, ma neppure gioia, mentre il tenente Vincenzo Carrozza, ventisette anni, ufficiale di carriera, stramazzava a terra cadendo sulla schiena.

“Cristo caporale, stavolta lo hai steso per davvero.” Disse l’aviere con voce piagnucolosa, e senza drizzare la schiena. Poi si tirò su la visiera sopra una faccia spigolosa diventata gialla. Alla fine allargò le braccia molli e incominciò a girare su se stesso sbattendo le mani contro le gambe.

“Niente balletti nevrotici imbecille…" e lo serrò per la gola. L’altro cercò di divincolarsi ma il caporale strinse ancora di più "Hai capito?”

“Si…”

“Tu eri al tuo posto e non hai visto un cazzo di quello che è successo, hai solo sentito i colpi. E fai sparire quella merda che stai fumando prima che ti vada in pappa il cervello.” e si diresse verso il corpo del tenente. Lo fissò dall’alto con il silenzio nelle orecchie che amplificava il suono dell’aria. Quando gli fu accanto non vide subito i suoi occhi coperti da una fascia scura di ombra, ma riconobbe il superiore dal leggero pizzo che gli incorniciava il mento. Poi si accovacciò a terra, come faceva sul buco della latrina, stringendo la canna del fucile piantato tra le gambe aperte, e pensò che anche quella notte stava trascorrendo inutile come tutte le altre. Inutile e senza senso.