La prima metà degli anni sessanta è povera di film noir e nel complesso il decennio è quasi un deserto rispetto ai vent’anni precedenti e a quanto avverrà a partire dalla metà di quello successivo. Ma sparse e disarticolate tra loro non mancano opere di rilievo.
Con Psycho, del 1960, Alfred Hitchcock firma uno dei suoi film più riusciti e più conosciuti, tratteggiando una figura di psicopatico che gli spettatori di allora (ma non solo di allora) faranno fatica a dimenticare. Costruito con magistrale perizia tecnica, questa rivelazione della follia di uomo, resta in bilico tra thriller e horror ma il suo carattere nero è assoluto. Il crimine e la colpa lo pervadono in ogni istante: dal furto iniziale di Janet Leigh al suo omicidio da parte dello squilibrato Anthony Perkins non sono solo i fatti a calarci nell’atmosfera del peccato. Le ambientazioni (e come Hitchcock le filma), le espressioni e i caratteri dei personaggi anche minori (vedi il poliziotto che controlla la Leigh in viaggio), la superba e tetra fotografia. Inoltre per quanto siano grandi le motivazioni che ci spingono all’azione, sia l’amore, il desiderio di una vita più libera o il peso insostenibile del passato e della paura, comunque, ci mostra sir Alfred, non c’è scampo. E non è tanto la giustizia a braccarci, quanto il destino, un destino privo di vere connotazioni morali.
Sulla linea evolutiva del genere noir, Psycho è un capitolo iniziale e di cambiamento innanzi tutto perché porta in primo piano il protagonista negativo, ne fa il centro magnetico della storia. E a differenza di altri "cattivi" di film passati non lo individua più come nemico della legge bensì come nemico del mondo, avversario della luce. E poi perché ci sono tutti gli elementi tradizionali del noir così come si era evoluto fino a quel momento. Una donna, a suo modo, fatale; un investigatore privato; un crimine, anzi due, da risolvere per provare a ristabilire l’ordine infranto; degli scenari cupi e dai forti contrasti. Solo che questi elementi vengono spostati dalle loro originarie collocazioni, scaricati delle valenze consuete e ricaricati con nuovo senso, lanciati come pedine verniciate di nuovo sulla plancia dove si confrontano le pulsioni, i desideri, gli istinti, le patologie. La protagonista iniziale così viene eliminata a metà del film, il detective anch’egli soppresso senza che possa nulla scoprire. Le due colonne portanti del noir classico sono rimosse e azzerate dei loro significati pregressi. L’unico ordine possibile ci appare alla fine quello di Anthony Perkins, che seppur nella follia ha dei punti di riferimento. Gli altri no, gli altri vagano in un reame ostile. Il fatto che venga catturato non cambia molto.
Psycho supera ampiamente il noir ma vi risiede a tal punto che lo schermo nero dopo la fine è davvero un sollievo.
Tirate sul pianista, di Francois Truffaut, e siamo ancora nel 1960, è un film non del tutto riuscito ma rappresenta un luogo di incroci importanti del noir rivolto al futuro. E sta soprattutto in questo motivo la sua importanza. Rappresenta la prima prova di un autore di punta della Nouvelle Vague con il genere (Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, che esce pochi mesi prima, può sembrare un film noir ma è in realtà il film che cambia per sempre il Cinema, è la Rivoluzione. Qualcosa di più insomma). Porta sugli schermi francesi un titolo della Serie Noir, collana della Gallimard che con lungimiranza già da tempo coltivava il fior fiore degli autori americani. E’ infatti tratto da Down There romanzo di un grande come David Goodis, autore non a caso maggiormente apprezzato in Francia che in patria, gli Stati Uniti. Unisce un soggetto classico e personaggi standard con lo stile innovativo del nuovo cinema.
Che ne fa un narratore moderno e sensibile come Truffaut di un plot classicamente malavitoso e disperante? Come tratta una storia dove i gangsters inseguono, il passato segna indelebile il presente, la morte tiene il banco, la musica salva, forse, l’anima? Ne tira fuori un film dallo stile totalmente inconsueto, quasi inadatto, per i puristi, in cui l’azione è così rarefatta da essere prossima all’estinzione e l’esistenza pesa come il catrame. Tirate sul pianista non troverebbe mai posto nella hall of fame del genere ma la sua data, la sua particolarità e la direzione che segna dimostrano che il noir è ormai ricco di tutte le vitamine necessarie per svilupparsi al di fuori del suo scheletro originario.
Scendiamo di un gradino, dove lasciamo due mostri sacri come Hitchcock e Truffaut. Il cinema in maiuscolo non è solo linguaggio, analisi e grandi tematiche. E’ anche macchina artigiale che ci porta via dalla realtà e dalla mente. Per recapitarci a volte sulla luna, altre in mezzo a un incubo. Come in Operazione Terrore (Experiment in terror), del 1962, una delle rarissime incursioni di Blake Edwards fuori dalla commedia. Il film, storia di due sorelle vittime di un rapinatore asmatico che cerca di svuotare una banca con il ricatto, è un meccanismo perfetto che cattura e soffoca lo spettatore. Il merito più grande di questo lavoro è di materializzare la paura e il disagio con la semplice arte del cinema. Arte mortale, perché la sua materia è il contagioso cadavere del tempo, ma di un fascino irresistibile, siano i suoi becchini filosofi o falegnami…
Il corridoio della paura (Shock corridor), anno 1963, regia Samuel Fuller, è film che raccoglie svariati pezzi di cinema nel collante del noir in cambiamento. Fuller, regista non intellettuale eppur amato dagli intellettuali, filma racconti corporei e al livello del suolo. Così nella claustrofobica ricerca della soluzione di un omicidio da parte un giornalista in cerca di gloria infiltratosi in un manicomio, emergono argomenti di primo piano: l’odio degli uomini, il razzismo dei bianchi, l’ambizione di chi dovrebbe essere paladino, le cicatrici della guerra. Molto lontano dagli amori assassini, dai gioielli misteriosi, dai segugi alcolizzati, il peggio del mondo emerge nella camicia di forza di una macchina da presa di visionario realismo, posta in faccia alle contraddizioni dei primi anni sessanta.
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