Aveva un occhio semi aperto e da lì osservava la sua vittoria.

Le risate che si faceva. Quasi strombazzava davvero dal troppo ridere.

La stanza fredda. L’addetto si sforzava affinché le parti interessate potessero passare attraverso la macchina, e lui si divertiva a farsi mollo e poi duro, ondeggiare e fermarsi di colpo. Come l’aveva istruito bene Mario, alla perfezione.

Trrrrr…. La macchina emise uno strano rumore. Aveva fatto i raggi.

Fu messo, di nuovo, sulla lettiga e, con la solita urgenza, riprese il viaggio.

“Sala Tac”, lesse su una porta con il solito mezzo occhio aperto.

Accidenti!, improvvisamente provò un senso di vero sgomento. Mario gli aveva parlato dei raggi. Sapeva come comportarsi coi raggi, ma la tac. Cosa occorre fare per la tac? Rischiava di rovinare tutto.

Già si vedeva attorniato da quattro cinque dottori che con sguardo bieco gli ordinavano di alzarsi e di tornare a casa. Che figura ci avrebbe fatto! Una figura da ladro di galline.

La macchina era immensa. Non aveva mai sentito di gente che aveva fatto tac e pertanto non ne aveva alcuna esperienza. Approfittò di questo nuovo malessere per emettere stridolini strani, che in cuor suo sperava potessero commuovere l’omone che lo stava preparando.

Fu entrato nella macchina. Lo avvolse del tutto.

Tremava davvero, adesso.

A un tratto una voce dall’esterno gli diede speranza.

Respiri.

Respirò.

Non respiri.

Non respirò.

D’un tratto una luce, dapprima fioca, poi man mano fervida e infine accecante.

Rise. Rise di gusto.

Fu la salvezza.

E se invertissi gli ordini? Se respirassi quando non bisogna farlo? Se non respirassi quando mi si ordina il contrario?

Era l’unica cosa da fare, e adesso si accaniva. Ci provava un gusto sadico a ignorare gli ordini. E più l’omone urlava più lui invertiva il processo.

Non respiri.

E giù con un respiro da far male al petto.

Respiri.

Trattienilo! Trattienilo Ernesto. Ne va del tuo futuro.

Fu un clamore.

L’omone, di corsa, lo estrasse dalla macchina, lo strattonò, gli urlava in faccia frasi che non comprendeva, scorse in lui una profonda pietà.

E dentro, Ernesto, proprio in fondo, si sganasciava dalle risate.

Che furbo che era.

Per i raggi era stato ammaestrato, istruito insomma. Ma adesso? Adesso era tutto merito suo. Il rumore delle gocce di sudore che l’infermiere, nella corsa impavida, spargeva copiosamente e casa sua che era un castello, clic clic clic, e la macchina che adesso volava, clic clic clic, e un viaggio sulla luna.

La barella impazzita faceva scorribanda di malati per il corridoio.

Aveva vinto. Lo aveva dimostrato a tutti.

Il primario visionò gli esami.

Fece di no con la testa. Era accigliato. Convinto.

Presto! Portatelo in rianimazione!

Che gioia provò Ernesto! Una gioia folle, assurda.

A stento riuscì a trattenere l’emozione. Aveva voglia di alzarsi, urlare, Ho vinto! Sono stato bravo. Il più bravo. Lo vedrà Mario, e come se lo vedrà!

Ne aveva una voglia matta.

Urla, gomitate, spintoni, e premura, e ansia, e disordine.

Fu portato in rianimazione e si addormentò vittorioso.

Non sapeva per quanto tempo avesse dormito.

Fu cauto: aprì mezzo occhio, vide gente, gli parve di riconoscerla.

La scritta fluorescente del caseggiato lampeggiava per la fredda stanza.

“Camera funeraria”.

Lesse. Sorrise. Chiuse gli occhi. Era felice.

Sarebbe diventato ricco, davvero ricco sarebbe diventato.