La faccia del commissario Alfredi era dovuta a tutti i cazzi di quella mattinata. Parlò lui. Il brigadiere Noto non avrebbe aperto bocca. Troppa tensione. Si sentiva nell’aria, si percepiva dai rumori. Dai cassetti chiusi in un certo modo, dagli oggetti spostati con malagrazia. Dal silenzio.
“C’è andato da solo”. Alfredi si guardò le mani, come se là sopra vi fosse scritta la soluzione a tutti i problemi che gli stavano massacrando i nervi.
“Ed è pure domenica”, aggiunse. “Hai voglia di avvertire quelli in servizio allo stadio, ormai è tardi. Se non vuole farsi trovare…”
Noto annuì per dargli ragione. “E’ più pericoloso di quanto possa sembrare”, continuò Alfredi. “Rischia di beccarsi due proiettili come nulla”.
Noto si alzò facendo dondolare la sedia. “Ci andiamo con un altro paio di uomini?, domandò a voce bassa quasi avesse avuto paura di quelle parole.
“Per forza. In servizio allo stadio c’è il vice Comaschi e mi ha già detto che di casini ne ha anche troppi per conto suo, e non si può mettere a star dietro agli eroi che prendono iniziative solitarie”.
“Non ha tutti i torti”, fece Noto sorridendo quasi intimidito.
“Non ha tutti i torti”, confermò Alfredi. Il brigadiere staccò la cornetta e cominciò a parlottare di una macchina e di un paio di agenti che servivano al massimo in dieci minuti. Alfredi andò alla finestra e spostò la tenda. “C’è voluto andare da solo”, ripeté parlando a se stesso. “E stamattina manca poco si fa ammazzare. Il campione delle minchiate che naturalmente mi devo ciucciare io…”
Stava cominciando la solita litania. Noto non l’ascoltò, fece finta di scartabellare fra i fogli sulla scrivania, aspettando con pazienza arrivasse il momento di darsi una mossa.
* * *
Serio cercò di camminare con disinvoltura. Raggiunse uno dei piloni che sorreggevano la gradinata. Là cacciò una mano nei pantaloni ed estrasse la pistola. Se la infilò dietro, nella cintura. Ora andava meglio. Si guardò la mano. Aveva cercato di darsi da fare con la bionda? Sorrise. Una volta infilò la mano sotto il maglione di una certa Giusy, la moglie di un brigadiere. Tentò di sganciarle il reggiseno e non ci riuscì. Dieci minuti di tentativi. E allora, per non fare la figura dell’imbranato, disse: “Forse è il caso di controllarci e non lasciarci andare ad azioni delle quali un giorno potremo pentirci”. Meglio non pensarci. Si avviò verso i gabinetti. Scese le scale e si guardò intorno.
“Cerco uno degli ultras. Ha un tatuaggio sul braccio. Un arco con la freccia”. Il ragazzo lo guardò storto. “So una sega io”. Serio si sentì assalire da una sorta di furia che lo fece avvampare in viso. Spinse il ragazzo contro la parete e lo immobilizzò.
“Non scherzare con me, stronzo”. Il ragazzo cercò di divincolarsi, ma non ci riuscì. “Allora, me lo dici?”, insistette Serio.
“Non lo conosco. L’ho visto un paio di volte. So che si dice sia un informatore della polizia”. Serio lo lasciò e il ragazzo se la diede a gambe rischiando di cadere sul pavimento laido e scivoloso. Serio dondolò la testa. Senti che razza di casino. Certo che gli informatori se li cercavano proprio con il lanternino. Risalì le scale. C’era troppa gente. Decine di baffi. Ci voleva pazienza. Si spostò verso il campo da gioco. Dette un’occhiata alle gradinate. La curva si stava riempiendo. Lì si sentiva allo scoperto e non voleva rischiare più del dovuto. Tornò sotto la gradinata e raggiunse il bar. Troppe facce. Così non lo trovava. Bevve un caffè. Una specie di caffè. Non doveva chiedere in giro. Sennò si faceva troppa pubblicità. Ne sapeva poco. Questa era la verità. Dei baffi e un tatuaggio. Niente di più. Troppo poco. Ci voleva fortuna. Uscì dal bar con una smorfia sul viso. Dovuta al caffè. Anche al caffè. Si comprò una sciarpa. Dieci fottuti euro. Così, per sembrare più affidabile.
Non poteva fare a meno di chiedere in giro. Sicché ogni tanto, quando individuava il tipo giusto, domandava qualcosa sull’uomo con il tatuaggio al braccio. Faceva finta di dovergli dei soldi, o di avergli portato del fumo. “Non mi ricordo il nome”, diceva sorridendo. La sciarpa era stata un’ottima idea. Gli dava l’aria di un tifoso di curva. Un po’ attempato, ma forse l’età valeva a farlo credere uno autorevole, con un passato. Alla fine venne a sapere che quello con il tatuaggio si chiamava Alberto, come lui. Il cognome non lo sapeva nessuno. Chiedere di Alberto era meglio, dimostrava che lo conosceva. Se lo trovava lo avrebbe arrestato, avrebbe chiesto l’intervento dei poliziotti in servizio allo stadio e avrebbe rivelato loro la sua identità. Cominciava a provare eccitazione per la gloria che lo attendeva, quando accadde una cosa che non aveva previsto. Un tale con un giubbotto di pelle e una fascia sulla fronte, al quale aveva posto la solita domanda, gli disse che Alberto, quello con il tatuaggio, stava cercando lui. Serio insistette provando a non mostrarsi troppo preoccupato: “Sei sicuro cercasse me?”
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