Ci sono certi romanzi che sembrano incapaci di vivere al di fuori delle ferree regole del proprio genere letterario; e ce ne sono altri, come L’assassino delle vedove del praghese Pavel Kohout (nato nel 1928, tra i fondatori di Charta 77), che giocano continuamente col lettore illudendolo di aver afferrato la loro intima essenza e sorprendendolo continuamente con un brusco cambio di prospettiva.

All’inizio la vicenda si presenta come un classico thriller storico, interessante più per l’ambientazione spaziale (una Praga vera, priva o quasi dei suoi feticci turistici) e temporale (gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale) che per il caso criminale in sé (un serial killer che ammazza e sevizia vedove tedesche e ceche ispirandosi a un quadro raffigurante il terribile martirio di Santa Reparata).

Due detective vengono incaricati del caso: il moravo Jan Morava, assistente del commissario Beran, e il tedesco Erwin Buback, assegnato alla Gestapo locale. Ma fin dall’inizio la strana coppia di investigatori si segnala più per le sue anomalie caratteriali ed esistenziali che per l’acutezza della loro detection: Morava, vissuto in una zona di confine e quindi in grado di parlare tedesco, pur acuto nel lavoro, è di un’ingenuità disarmante e s’innamora ben presto, ricambiato, di Jitka, giovane segretaria nell’ufficio di Beran. Buback, nato da matrimonio misto ma di madrelingua ceca, con la moglie e la figlia uccise dalla guerra, supera il blocco affettivo causato dalla tragedia e, dopo un breve idillio a senso unico con Jitka, si lega alla ballerina Grete.

Così, mentre intorno infuria la guerra, tra la speranza nell’arma segreta hitleriana e la tragica realtà dell’avanzata degli Alleati, Morava e Buback, testardamente, inseguono il loro sogno di purezza poliziesca, dando la caccia al serial killer, e coltivano la loro utopia privatissima sognando una qualche loro felicità che scavalchi la guerra proiettandosi nel futuro.

Fin qui un thriller storico con adeguati approfondimenti storici e psicologici, qualche concessione alla moda del momento (i particolari sulle sevizie delle donne) e un cupo senso di oppressione che avvolge anche il lettore. A questo punto, siamo circa alla metà del romanzo, quando il lettore s’illude di aver delimitato il campo d’azione della vicenda, quest’ultima viene rovesciata come un guanto da Kohout: si conosce l’identità del serial killer (errore letale se L’assassino delle vedove fosse un qualunque best seller della Cornwell o della Reichs), ma si assiste anche alla sua metamorfosi in combattente per la libertà della sua patria: in realtà mette al servizio dei tempi la sua insostituibile perizia nell’uccidere, trovando le “giuste” motivazioni in un’infanzia e in un’adolescenza drammaticamente segnate dall’assenza del padre e dalla presenza di una madre autoritaria e vendicativa.

Parallelamente anche Morava e Buback, pur continuando la caccia, cominciano a mostrare lati del carattere prima insospettabili e, figli entrambi di una cultura di confine, aliena dal manicheismo imperante hitleriano, sinceramente dediti all’aspetto tecnico dell’indagine (in questo ricordano il detective “fascista” di Lucarelli) si avvicinano, stimandosi sempre più. E le loro compagne entrano a pieno titolo nella vicenda quando si offrono di fare da esca al serial killer.

Il thriller storico si sta trasformando in un romanzo storico tout court con venature noir in cui il problema fondamentale non è accompagnare il lettore alla cattura e all’arresto del criminale (che diventa semmai il pretesto della narrazione) quanto squadernargli l’atroce spettacolo di una guerra in cui i tedeschi passano da carnefici a vittime, in cui pacifici cechi si trasformano in ribaldi assassini, in cui gli Alleati occidentali sono sempre troppo lontani e quelli sovietici troppo vicini, mentre infuriano i passaggi di campo e si profila all’orizzonte l’armata del generale Vlasov, formata da ex prigionieri di guerra russi, nemici dei tedeschi, destinati a morte certa da Stalin in quanto traditori e inutilmente protesi a raggiungere le truppe anglo-americane.

Naturalmente poiché L’assassino delle vedove è pur sempre, soprattutto nella sua prima parte, un noir, eviteremo di svelare i ripetuti e tragici colpi di scena finali che avvinceranno il lettore: per non parlare poi dell’autentica capriola narrativa, del resto in linea con la filosofia del romanzo, con cui si conclude la vicenda umana e professionale di Buback e Morava e delle loro donne.

Romanzo bello, avvincente, spiazzante, scritto da un autore non professionista del genere ma in grado di usare le regole del noir per rivelare la sua verità: su quel tragico momento di trapasso, ma forse anche su se stesso (dopo un’accesa militanza comunista è diventato infatti dissidente e ha perso addirittura la cittadinanza cecoslovacca tra il 1979 e il 1989).

Un modello, verrebbe da dire, per tanti nostri autori: si può essere eversivi delle regole di un genere senza per questo mancar di rispetto al genere stesso. Kohout riesce in questo miracolo e gliene siamo davvero grati.

 

Voto: 8