Giles si piegò in avanti accostando la busta a sé: accarezzandola, ne estrasse la bottiglia di Bourbon. Fece schioccare il tappo, e dopo averlo buttato via prese ad annusare l’apertura di quel segreto: quasi senza accorgersene ricadde dolcemente a terra all’indietro, lasciandosi il bruciore del liquido addosso, sul corpo che come un’antenna captava ogni minima variazione di calore sul petto, sulla guance, sui peli. Si sentiva godere in quel fiume dolce di potere e bellezza che sembrava non finire mai.
Thyco lo osservava divertito dimenarsi nella festa di Bourbon, e pensò che aiutarlo non sarebbe stato male. Si allungò verso la busta premendo sul petto di Giles, e ne esaminò il contenuto: un altro Bourbon e due bottiglie di vino. Decise di prendere la prima per raggiungere l’amico nello sguazzo di fuoco che si divampava nell’erosione del vetro. Le ultime due le avrebero riservate per il finale. Con un colpo secco spappolò quella forma avvolta da carta inutile: i resti della bottiglia giacevano alla sua destra, come schegge di un cervello disperso. Allora lentamente rotolò verso i cocci e iniziò a strofinarvisi contro, sentendo la vibrazione del vetro urtargli contro la pelle, illuminata dalla ruggine viscerale del liquore. Finché la danza simultanea tra loro non diventò così forte e intensa da farli addormentare.
Il rasoio tagliente della notte più profonda li svegliò. Giles fu il primo ad alzarsi e vedendo l’amico ancora raschiato dai frammenti acustici della bottiglia gli tese una mano. Thyco si lasciò tirare e, ormai in piedi, raccolse la busta; presi i due vini, la buttò via. Ne diede uno a Giles, e tenne l’altro per sé. Senza parlarsi, presero poi a camminare lungo la strada più vicina.
Non c’era un’anima in giro, come se la città si fosse strappata di dosso tutti i rifiuti umani che la popolano di giorno.
Non avevano ancora compiuto molti passi che, accanto a un cassonetto dell’immondizia, notarono un ammasso scuro, remoto e minaccioso. Avanzarono impassibili, le bottiglie in mano. La luce fioca dell’unico lampione funzionante donava squarci rapidi dell’enigma, ancora indecifrabile. Erano ormai a un palmo dall’ignoto, quando i loro occhi si rianimarono a contatto col brutale odore della conoscenza. Era una mucca, buttata a terra come un mucchio di rifiuti, morta, uccisa forse. Grondava sangue nero, che si distingueva dal buio pressoché totale per il suo tremolìo continuo. Il lampione divenne improvvisamente cieco, e i due rimasero per un attimo nell’oscurità priva di respiro, che colpisce il corpo prima che si abitui a saggiare le tenebre. Dopo aver atteso che quel respiro si riaprisse, Thyco fece, guardando la mucca:
“Sai, è come se quel sangue fosse nostro”.
“Che vuoi dire?”, chiese Giles voltandosi verso di lui, cercando di perdere coscienza dell’animale morto.
“Sento che quel sangue è nostro”, continuò Thyco, quasi non avesse ascoltato. “È il nostro sangue che fluisce per lasciar respirare il mondo. Il mondo si lava attraverso di lui”.
Confortato da quelle parole, Giles riebbe il coraggio di osservare la mucca. Il suo sangue gli parve fatto di lacrime che inondavano la strada in salita che non conosceva alternative: solo l’unione tra esseri di spirito, esseri d’alcool. Allora aprì la bottiglia di vino e Thyco, sentendo l’abituale rumore dello schiocco, fece altrettanto. Subito dopo si guardarono, nel fondale del buio, e le loro bocche si avvicinarono, si morsero, in una vampata d’ebbrezza.
“Sono pronto”, sussurrò Giles. “Il vino spazzerà via la luce spietata del mattino”, pronunciò sicuro. Infine, intrecciate le braccia, si avviarono verso il fondo della strada.
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