Praticante d’arti marziali, appassionato dell’Oriente, narratore di avventura… non so quali, di queste esperienze che hanno segnato la mia vita professionale e personale, siano nate prima o si siano influenzate a vicenda. Di certo il Giappone e il mondo della Yakuza, la mafia nipponica, sono, nel mio immaginario, un punto focale. Rivedere la terza avventura del Professionista ambientata in Giappone in previsione di una ristampa e il successo del film di Tarantino, zeppo di riferimenti a un mondo di banditi tatuati diventato ormai un mito, mi ha spinto a rivedere film, rileggere libri e fumetti ma, soprattutto a rammentare il mio di viaggio nell’impero del Sol Levante alla ricerca delle radici della Yakuza.
Sgombriamo il campo da equivoci. La mala nipponica, come quella siciliana, russa, cinese o quant’altro è una faccenda da delinquenti e questi hanno sempre cercato di alimentare l’idea del fuorilegge che ruba ai ricchi per dare ai poveri. In Giappone tutto ciò s’è fuso con la tradizione del Bushido, il codice d’onore dei samurai e l’immagine idealizzata del guerriero orientale che in occidente ha sempre avuto successo. Va bene, la finzione - narrativa e cinematografica - può consentirci di trastullarci in tali modelli, ammirarli persino, ma la realtà è diversa. E, considerata la new wave dei registi giapponesi e l’occhio brutale e disincantato con cui affrontano l’argomento, è necessario guardare questa realtà per capire il mito. Più di ogni altro Kinji Fukasaku (regista culto di Tarantino che a lui si è ispirato più che al Kung Fu, come è stato non del tutto correttamente detto in Italia) ha saputo negli anni ’70 riassumere certi aspetti realistici della Yakuza pur mantenendo l’epicità del racconto. Di cinema parleremo nella prossima puntata ma film come Fight without Jingi (liberamente tradotto come “combattimento senza codice d’onore”) e Graveyard of Morality (il cimitero della morale) sin dai titoli esprimono quella brutalità che ha caratterizzato la storia della Yakuza e nello stesso tempo evidenziano la disperata necessità di divulgare un’immagine cavalleresca. Il Giappone è una terra di contrasti tra immagini d’ordine, purezza, ascetismo e violenza, rancore, passione incontrollata. È un mondo dove sono in perenne lotta concetti come il Giri, il dovere che Ruth Benedict nel suo saggio Il Crisantemo e la spada definiva “il peso che non può essere sopportato” e il Ninjo, la passione. Tutta la cultura nipponica è impregnata di questo contrasto che, molto spesso, sfocia in atti di violenza.
Ricordate Gohatto di Oshima? Raccontava la fine dei samurai e del loro mondo rigidamente organizzato secondo un’etica virile, sgretolato da passioni omosessuali e dalla consapevolezza che il privilegio di portare la spada aveva fatto il suo tempo. Nell’Ultimo samurai – film americano girato in Nuova Zelanda, piacevole ma con tutti i luoghi comuni di Hollywood – l’idealizzato capo dei ribelli afferma che “per duecento anni la casta dei samurai ha difeso il popolo”… in verità i samurai uccidevano per il loro padrone e, quando non erano in servizio, si astraevano nello zen per non pensare alla più che probabile dipartita o si abbandonavano ad atti di barbarie verso gli henin, il popolino che non aveva nessun diritto. Se un contadino attraversava con la sola ombra il cammino del prode samurai questi poteva provare la sua spada tagliando da parte a parte il poveraccio e restando impunito. Il rituale, lo tsuji-giri, era cosa comune e accettata da tutti. Altro che cavalleria… e che ne dite della nobile arte del Ju Jitsu di cui oggi si parla come “dolce arte della cedevolezza”?…
Era un sistema di lotta corpo a corpo studiato soprattutto dai nanushi, i buttafuori dei bordelli contro i samurai ubriachi che picchiavano le prostitute del quartiere Yoshiwara di Tokyo. Il Giappone feudale era un luogo violento, pieno di contraddizioni e conflitti e, sin da quei tempi, percorso da ronin, samurai senza padrone e, peggio ancora da kabuki-mono, le bande dei pazzi, che scorrazzavano per il paese razziando villaggi e piccole città. Erano i banditi da strada che si vedono in I sette samurai di Kurosawa e costituiscono la prima forma di malavita organizzata nipponica. Ma Goro Fujita, ex gangster della Tosei-kai e prolifico narratore del mondo della mala (Il cimitero della morale che ispirò Fukasaku è un suo romanzo), afferma nel suo saggio Storia dei 100 anni che la Yakuza ha un’origine differente. Ya-ku-za è una combinazione di numeri, 8-9-3, che in un popolare gioco d’azzardo, l’hanafuda, indica il punteggio più basso e, da qui, gli uomini senza valore. Era il modo in cui, nel Giappone pacificato dalla dittatura Tokugawa (1600-1868), i bakuto, i biscazzieri, chiamavano se stessi. Già si capisce che in questa umiliazione autoinflitta ci sia il desiderio di riscatto, di ammantarsi di una nobiltà inesistente. Eppure è proprio tra le bande di biscazzieri che nasce la vera Yakuza.
Dai rituali di questa categoria di uomini “inutili” tuttavia presenti in ogni città, nei rioni malfamati, nascono usanze diventate leggenda. I tatuaggi sul corpo, comuni ai biscazzieri quanto alle prostitute, impressi con processi lunghi e dolorosi, una prova di resistenza fisica, lo scambio delle coppe di sakè come cerimonia di alleanza e, soprattutto, il rapporto oyabun-kobun. In Giappone l’oyabun è il superiore, il mentore cui l’apprendista, il kobun, deve rispetto e obbedienza. Si tratta di un rapporto tipico di tutta la cultura nipponica ma che assume connotazioni quasi maniacali nella Yakuza. L’oyabun è il capo famiglia, l’equivalente del padrino, il signore supremo del gumi, l’organizzazione. A lui è dovuto il Giri, la cieca obbedienza che arriva all’automutilazione, altro elemento mitico passato dalla realtà al cinema e alla letteratura. Il rito dello yubitsume, il taglio del mignolo, aveva anche un rivolto pratico. Nel Ken-jitsu, la scherma, spade e pugnali si serrano e si manovrano soprattutto con ultime dita della mano. Privo del mignolo – o di una falange – il kobun macchiatosi di disonore vedeva ampiamente diminuita la sua capacità di schermare e difendersi.
Accanto ai bakuto si schierarono i tekiya, la casta degli ambulanti. Presto i due gruppi divennero indistinguibili e formarono enormi corporazioni che controllavano gioco d’azzardo, prostituzione, traffici d’ogni genere con spietata brutalità, ammantandosi però di un codice d’onore ispirato a quello dei samurai. Con l’apertura del Giappone al mondo occidentale e l’impennata nazionalistica dell’inizio del ventesimo secolo, gli Yakuza ereditarono lo status dei guerrieri di professione aboliti trent’anni prima. E nelle loro fila entrarono tutti i livelli più bassi della società. I burakumin (becchini e coloro che lavoravano con gli animali morti) erano considerati non-umani dal resto della società, ma nelle file della mala trovavano un’occasione. E come loro i sangokujin, reietti di origine coreana, thailandese e cinese, costretti a lavorare in stato di semischiavitù nelle periferie. E con l’inasprirsi della lotta di classe, l’avanzare dell’ultranazionalismo di destra, società segrete come il Kokuryukay (la Società del Drago Nero, un po’ l’equivalente del partito nazista) strinsero legami sempre più stretti con la Yakuza inserendo un altro gruppo alla base dell’organizzazione, i gurentai, i teppisti impiegati contro gli scioperanti di sinistra e, in tempi più moderni i basuzoku, i motociclisti citati, almeno visivamente con una certa accuratezza in Black Rain di Ridley Scott.
È stato dopo il secondo conflitto mondiale, con la forzata alleanza tra gangster, criminali di guerra e spie in funzione antisovietica, che la Yakuza ha però avuto modo di modernizzarsi, acquistando da una parte una facciata di rispettabilità e dall’altra una diffusione capillare nella burocrazia statale. È negli anni di Kodama, leggendario oyabun del dopoguerra, che nasce il mito del consiglio degli oyabun, del kuromaku, del sipario oscuro dietro il quale si cela il Kaisho, il capo di tutti i capi, che lega la malavita alle alte sfere della politica. Vi ricorda qualcosa? Situazioni più vicine a noi magari… E qui comincia la mia personale esperienza, nel cuore di Tokyo, a Ginza, quartiere elegante con i negozi di moda italiana, le folle agli incroci e i grandi tabelloni animati. I locali del vizio sono vicini. A Shinjuku e a Roppongi dove alle nove di sera ho visto una prostituta in tenuta sadomaso entrare in un fast food con un cliente in doppio petto, ubriaco e visibilmente soddisfatto di essere al guinzaglio. È in questi quartieri dove a ogni angolo si aprono angusti locali di pachinko (una sorta di biliardino che rappresenta la versione locale del videopoker) che si aggirano bei giovanotti che avvicinano scolarette in gonnellino e calzettoni proponendo loro di girare, anche per una sola volta, un film porno, di vendere la loro biancheria intima ad attempati signori desiderosi di pagare migliaia di yen solo per annusare l’innocenza. Qui si trovano i locali di hostess, molte giapponesi ma anche tantissime iraniane, russe, scandinave, che fanno impazzire i sararyman, gli impiegati, per i quali la bevuta con i colleghi è un dovere irrinunciabile. A due passi da Roppongi c’è un locale dove si mangia il sushi sul corpo delle ragazze nude distese come piatti, svoltato l’angolo c’è Ni-chome, il Secondo distretto, riservato ai bar gay e ai travestiti, una zona pericolosa.
E nel paese dove tutti lavorano a ritmi maniacali, dove il tasso di alcolismo delle mogli sole è tra i più alti del mondo assieme alla percentuale dei suicidi minorili, ci sono gang di ogni tipo. Le ragazze ganguro che si tingono la faccia di nero, ma anche le darku, vestite come damine dell’Inghilterra elisabettiana, o i gruppi rock che s’ispirano ai Nirvana; ma non fatevi ingannare, malgrado la verniciatura di americanismo, è sempre la vecchia Tokyo, come diceva un personaggio di Yakuza di Sidney Pollack. Dietro al gaijin kumpurresku, il complesso d’inferiorità verso gli stranieri, il Giappone ha mantenuto regole sociali rigide, rituali, violenze a volte inconcepibili cui la realtà del mondo Yakuza si adatta perfettamente. Sasakawa, noto miliardario locale presidente per anni della World Union Karate Association era un esponente dell’ultra destra e probabilmente un oyabun. Oggi il Pride, una forma di combattimento importata dal Brasile ma capace di riempire arene da 40.000 persone, è gestito dalla Yakuza. Attira milioni di fan tra televisione ed eventi in diretta. Massaie, studenti, impiegati, brava gente… le regole sono semplici: si combatte in una gabbia e vale tutto. E non è una finta come per anni è stato il Wrestling, qui il sangue scorre davvero. E non è finita, esistono circuiti clandestini dove si combatte per cifre altissime, in un garage. Duemila yen solo per vedere e avere la possibilità di scommettere. Uomini contro uomini. Donne contro donne ma anche duelli misti e, qualche volta, uomini contro animali. Tutto gestito dalla Yakuza. E neppure le arti marziali, così artificiosamente ingentilite per l’esportazione in Occidente, sono più le stesse.
A Osaka sono stato in un dojo tradizionale di Karate. Altro che contatto controllato, qui si allenano energumeni gonfi di steroidi. Pochi saluti e contatto reale. "Il Karate del rispetto dell’avversario dov’è finito?" chiedo. “Ah, spiritual Karate… No, ormai non interessa più a nessuno…” Mi dicono con un sorriso che ha qualcosa di sinistro. E magari dietro a tutto questo c’è davvero un kuromaku, il burattinaio che manovra tutto da dietro un sipario oscuro… 1-continua...
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