Passavano i giorni e il mio rapporto con Dalia si faceva sempre più importante. La nostra non era solo una storia di sesso. Avevamo un sacco di cose in comune e ci piaceva passare intere giornate lungo la calzada a raccontarci la nostra giovinezza. Dalia mi diceva di suo padre morto dopo una lunga sofferenza per via di un maledetto tumore allo stomaco e di sua madre che si era lasciata morire in solitudine pochi anni dopo, annichilita dal dolore. I suoi genitori erano una coppia unita, vivevano in simbiosi totale, e una volta venuto a mancare il marito anche la moglie si era spenta giorno dopo giorno. Dalia aveva dovuto crescere in fretta e a soli quindici anni, invece di pensare alla festa d’ingresso in società come tutte le ragazzine, era diventata una donna. A Cuba la festa dei quindici anni è un rito irrinunciabile per una ragazza e la famiglia fa di tutto per procurare un vestito rosso tradizionale e per organizzare un compleanno indimenticabile. Uno dei crucci di Dalia era proprio quello di non avere mai avuto una festa tutta per lei, ecco perché si dava un gran da fare per i festeggiamenti dei piccoli pionieri e per i santi del quartiere. Voleva aiutare gli altri a fare le cose che lei non aveva potuto ottenere e poi le piaceva ballare e respirare l’atmosfera di allegria delle feste del barrio. Dalia raccontava anche di tutti gli uomini che l’avevano delusa, ogni volta che aveva cercato di trovare rifugio in uno di loro. “Non è mai andata bene”, diceva. L’unico vero uomo della sua vita restava suo padre. “Peccato che non abbia lasciato neppure una foto. Il suo ricordo lo tengo fisso nella memoria e quando sono giù di morale mi capita di sognarlo. Solo lui sa darmi la forza per andare avanti”. Dalia conservava una foto della madre scattata il giorno delle nozze mentre stringeva un mazzo di fiori, ma suo padre non aveva voluto essere immortalato. “Le foto sono sciocchezze borghesi”, diceva. Il padre di Dalia era comunista convinto, tesserato del partito, uno che difendeva la sua Rivoluzione fatta sulla Sierra fianco a fianco con Camillo. “Non ha visto la fine che hanno fatto le idee per cui ha lottato e forse è meglio così”, commentava Dalia.
A mia volta le raccontavo il mio quotidiano privo di grandi emozioni, non potevo certo dire di fare una vita avventurosa alla fabbrica di sigari, l’unico rischio che correvo era quello di portare via un po’ di roba da vendere ai turisti. Anch’io abitavo solo, in fondo alla calzada che porta verso il municipio di Diez de octubre. Alla fine della nostra storia sono andato a vivere a Toyo. Troppi ricordi mi legavano a quel posto e non ce la facevo più ad abitare a Luyanó.
“Come ho fatto a non incontrarti prima?”, domandavo.
“È il destino che combina gli incontri”, rispondeva Dalia.
Fu così che mi raccontò del gatto nero che aveva trovato sull’avenida del puerto, l’unico compagno di cui si poteva fidare.
“Adesso però ci sei anche tu”, concluse.
Il gatto nero, che come sempre era insieme a noi, miagolò forte. Pareva quasi che avesse afferrato il senso di quell’ultima frase e che non gli fosse piaciuto per niente.
Il gatto. Quel maledetto incubo dipinto di nero che non ho mai amato. I suoi occhi fissi nel vuoto e uno sguardo sempre uguale che pareva scrutare fino in fondo alla mia anima. Immutabile presenza per quelle due stanze. Ingombrante animale strisciante tra lenzuola e calore mentre facevamo l’amore. Quel gatto nero era sempre in mezzo a noi. Saltava sul letto e ci svegliava al mattino. Pretendeva attenzione nei momenti più assurdi. Si avvicinava a Dalia per chiedere cibo e carezze come un amante geloso. A volte lo guardavo e pensavo che mi odiasse. Lui di solito non si curava di me, ma ogni tanto mi fissava con occhi cupi e tenebrosi che si scontravano con i miei. Maledetto gatto. Non smetterò mai di gridarti il mio odio in ogni momento del giorno. Se sono fuggito via da Luyanó è stato soltanto per causa tua.
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