Dalia viveva sola in un solar di Luyanó, una piccola casa vicino alla scuola primaria di un quartiere povero, come povera è quasi tutta L’Avana, pure se mica lo possiamo dire troppo forte, ché le mura hanno orecchie e i chivattones sono dietro l’angolo pronti a fare la spia. La scuola primaria di Luyanó è stata pure la mia scuola. Ricordo ancora oggi il sapore del gesso quando la maestra mi chiamava alla lavagna e il profumo del mango che mi dava mia madre per merenda. Abito ancora vicino a quel quartiere, tra gli odori del porto e i pensieri di gente che sogna di scappare, un giorno o l’altro, oppure dei ricordi di chi ha mezza famiglia al di là dell’oceano, emigrata in cerca di speranze. Vivo a Toyo, sopra la panetteria che una volta era tra le più famose dell’Avana, ma adesso finisce le scorte alimentari in breve tempo e poi ce n’è poca di gente che può permettersi il pane. Riso e fagioli, un po’ di roba comprata con la libreta, minestre di verdure raccolte nei campi, frutta, yuca, boniatos… questa è la nostra dieta. Il mio palazzo è un condominio alto e fatiscente, dieci piani di miseria che si elevano a scoprire Piazza della Rivoluzione e i ricordi di troppi fallimenti, un portone rifugio di cani che perdono escrementi e di innamorati che si accarezzano al riparo da occhi indiscreti. Abito all’ultimo piano e ogni giorno quando torno dalla manifattura di sigari mi faccio dieci rampe di scale senza ascensore. Lavoro là per cento pesos al mese, che se non rubassi un po’ di sigari da rivendere ai turisti in giro per L’Avana servirebbero a niente. E allora capita che, mentre arrotolo sigari e bevo un sorso di cispe de trén che mi porto a lavoro, ripenso a Dalia e alla nostra storia, un ricordo troppo vivo proprio ora che sento la mancanza di una donna. E poi io e Dalia eravamo davvero innamorati.
Dalia faceva l’infermiera all’Hospital Hija de Galicia, non lontano da casa sua, ogni giorno percorreva la calzada che conduce al porto e poi prendeva la strada per il grande edificio cadente dove trascorreva le sue giornate. A casa non l’attendeva nessuno, solo il suo gatto nero unico compagno d’una vita solitaria. Dalia aveva poco più di trent’anni e parecchie storie alle spalle con ragazzi del quartiere, ma purtroppo nessuna finita bene. Gli uomini avaneri sono tutti uguali, pensava Dalia. Lei era finita a vivere con ubriaconi perdigiorno che rientravano a casa e la picchiavano prima di costringerla a far l’amore, ma anche con individui che alla prima occasione la tradivano senza starci tanto a pensare. Dopo l’ultima delusione aveva deciso di vivere da sola e di prendere dalla vita le cose migliori, ma sempre fuori dalla porta di casa. L’amore non le aveva riservato che sofferenza e allora aveva scelto il sesso, quando ne aveva voglia, ma nel suo grande letto matrimoniale c’era posto solo per il gatto nero che una sera aveva trovato lungo la strada del porto. Dalia lo aveva chiamato Pedro, come suo padre che era morto pochi anni prima, forse per ricordare l’unico uomo che non l’aveva mai tradita e che ancora adesso sognava di trovare al suo fianco. Una vecchia leggenda cubana dice che i gatti neri sono come le ceibas, raccolgono dentro di loro l’anima delle persone che ci hanno voluto bene. Dalia sperava che fosse davvero così e trattava quel gatto come un essere umano, così tanto che i pettegolezzi del quartiere raccontavano che ci facesse pure l’amore. Non era vero, però le voci del barrio si rincorrevano e le comari ridacchiavano tra loro pensando a un’amicizia così speciale nata tra una donna e un animale. Il gatto era l’ombra della padrona, usciva insieme a lei per fare la spesa, le stava accanto giorno e notte. L’affetto tra Dalia e Pedro non era normale e la santéra del barrio aveva finito col dire che quel gatto aveva dentro lo spirito d’un morto.
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