- Lo sai che nessuno crederà al suicidio, Napoleone? – buttò lì, sperando in qualche reazione.
- Chi se ne importa, tanto questa notte nessuno avrà qualcosa da ridire. La clinica è nostra, di noi pazzi. Ma i veri malati siete voi, con la sporcizia che vi portate dietro, voi, che dovreste curarci. E invece ci infettate. Ci uccidete, ci fate impazzire.
Lo sguardo non era quello di un allucinato, nonostante le parole, era freddo, sicuro di sé, accompagnato dal movimento del bisturi che disegnava certezze e promesse.
- Io non lavoro nella clinica, - tentò il dottore, - per me puoi fare cosa vuoi. Lasciami andare.
- Non credere di fregarmi. Tu sei come gli altri, credi che non l’abbia notato? Così giovane e già a dare ordini, a guardare la signora Vernissoni dall’alto, ad imbottirla di farmaci.
Concluse la frase sputando per terra, e la saliva andò a mischiarsi al sangue del vero infermiere.
Il dottore si guardò intorno, ma oltre alla pala, non c’era altro con cui difendersi. Continuò a parlare, avvicinandosi all’uscita, centimetro dopo centimetro.
- Sei stato tu a scollegare i telefoni, vero?
- Certo. Se avessi chiamato la polizia, avresti incasinato tutto. Avrei dovuto uccidere anche qualche agente. Oltre a te ed Aldo, naturalmente.
Quelle parole calarono come una sentenza nel silenzio morbido della notte, e il dottore capì che non poteva più aspettare.
A testa bassa, braccio sinistro a proteggersi il viso, si lanciò di peso sull’uomo che gli bloccava ogni via d’uscita.
Sentì la lama mordergli il braccio, il camice macchiarsi subito di rosso, come inchiostro che si allarga da una penna che perde. Niente di grave, comunque.
Diede uno strattone alla cieca, un calcio, e si rotolò in terra.
Fuori il buio stava perdendo il livore notturno, e il cielo già rischiarava, creando ombre tenui.
Il dottor Valla si alzò e corse, senza voltarsi, fino all’ingresso della clinica.
Lì, dopo aver chiuso la porta, guardò il sentiero che piegava a sinistra, fino al capanno, fino alla morte, promessa.
Napoleone non l’aveva seguito, o così almeno sembrava.
Controllò di aver chiuso a chiave, e andò in reparto a controllare: i pazienti dormivano placidi, ignari di ogni cosa, persi in sogni nitidi che per molti di loro sarebbero continuati per tutta la giornata, o per tutta la vita.
Il corridoio, lo stesso di pochi minuti prima, ora, metteva paura.
Ogni ombra portava con sé la certezza di quel bisturi, e il dolore al braccio pulsava ritmico, come una promessa mancata.
Tornato in sala medici, provò il telefono, ma il segnale era ancora assente.
Cercò allora nelle proprie tasche e in quelle lunghe e capienti del camice e, inaspettatamente, lo trovò: il suo cellulare, batteria al massimo e pieno campo.
Finalmente qualcosa iniziava a girare per il verso giusto. Forse era l’alba, con la luce obliqua che filtrava dalle lunghe finestre a portare con sé un po’ di fortuna. O forse la sorte si era già divertita abbastanza alle spalle del dottor Valla. Bisognava approfittarene.
Chiamò la polizia, spiegò la situazione, e attese.
Ci misero due ore, gli agenti, tra i rilevamenti e i primi interrogatori.
La clinica, intanto, aveva ripreso la sua vita, tra medici sgomenti e personale imbarazzato. Non se lo sapevano spiegare quel comportamento improvviso. Tutto sembrava andare così bene, tanto che lunedì avrebbe dovuto essere dimesso. Incredibile.
Intanto il letto 17 rimaneva vuoto, perché di Napoleone Sanpetronio non c’era nessuna traccia. Era fuggito, scavalcando il cancello, per le strade della città, e nessuno era ancora riuscito a trovarlo.
L’avrebbero preso, promise un’agente al dottor Valla, rubando battuta e sguardo ad un film poliziesco di serie B. Lo sapevano fare, e bene, il loro lavoro.
Intanto, il giovane dottore, se ne poteva tornare a casa. Si sarebbe dovuto presentare al commissariato l’indomani, per una deposizione formale, nulla più.
Mani si strinsero, qualcuno buttò lì qualche battuta, come se tutto fosse ormai un vago ricordo. Tutto era sotto controllo. Ora.
Lui, il dottore, percorse i metri che lo separavano al cancello come in trance, perso tra stanchezza e irrealtà. Quella folle notte era finita. Duecentocinquanta euro netti, una vacanza alle porte, e la solenne promessa che, con le cliniche psichiatriche, aveva chiuso.
Salì in macchina, dopo averla cercata tra le tante, e inspirò a fondo. Il motore rispose immediato, e l’auto partì, direzione casa. Finalmente.
Sorrise grato alla nuova giornata, senza accorgersi del ghigno nascosto nei sedili posteriori, e del riflesso della piccola lama, ancora avida di sangue.
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