La porta del capanno era socchiusa, e l’odore di morte, dolciastro nelle sue prime fasi, colorava l’aria a tinte chiare.

Si era infilato un paio di guanti in lattice troppo stretti, e le mani iniziarono a formicolare.

L’uomo era ancora lì, seduto, in mutande. D’altronde, essendo morto, non avrebbe potuto fare granché, si disse il medico, per smorzare la tensione.

Il sangue sul pavimento era del tutto coagulato, o assorbito dalla terra. Intorno, cocci di vetro, lattine, e carta igienica sporca. Un letamaio.

Una pala, dal manico di legno, era appoggiata vicino e il bisturi, che aveva reciso le vene dell’uomo, assorbiva ogni riflesso della torcia.

Il dottor Valla, o Dottorino secondo alcuni, di cadaveri ne aveva visti solo tre nella sua breve carriera. E mai nessuno seduto in un capanno, di notte, con i polsi tagliati.

Ma ogni medico, anche giovane, ha dentro sé una lucidità innata, razionale, che riesce ad avere la meglio su ogni conato di vomito, o su ogni possibile repulsione. Basta guardare ogni cosa da un lato diverso, scientifico, perché ogni cosa perda l’alone fantastico e diventi puro oggetto, impersonale. Così, con circospezione il dottore prese a fare ciò che ancora non aveva avuto il coraggio di compiere: il suo lavoro.

Iniziò ispezionando il cadavere, cercando di muovere il corpo, ormai rigido, il meno possibile. La pelle, sui polsi, era aperta in un solco netto, sul braccio destro, più insicuro e impreciso sul braccio sinistro. Le dita delle mani erano larghe, del colore giallastro degli accaniti fumatori. Un tatuaggio, un intricato arabesco cinese, macchiava la spalla e i piedi nudi mostravano unghie lunghe, sporche di terra.

Il dottore si allontanò di un passo dal cadavere e guardò la scena nella sua interezza: suicidarsi in quel modo, tra polvere e sporcizia, contrastava nettamente con la personalità di Napoleone Sanpetronio, ossessionato com’era dalla pulizia e dall’ordine. Ma, forse, né gli psichiatri né i test erano riusciti a capire veramente il paziente del letto 17, e la sua morte era lì a dimostrarlo.

Cercò ancora, più per avere la coscienza tranquilla che per il giuramento di Ippocrate, mero ricordo di un esame di stato.

Il viso del cadavere era contratto in una smorfia di dolore, e sulla fronte era raggrumata una spessa macchia di sangue, come cera scura, che dai radi capelli andava giù, fino alla palpebra abbassata. Punto di origine era una lunga escoriazione sul cranio, obliqua e profonda.

Probabilmente l’uomo aveva sbattuto la testa, entrando nel capanno, oppure…

Oppure qualcuno l’aveva colpito. E il fascio della torcia andò a cercare la pala, posata lì accanto. Sulla punta, tra ruggine e terra, c’era anche del sangue.

Il calore che saliva dalla terra iniziò ad essere soffocante, come l’immagine del cadavere, non più un paziente che ha deciso di togliersi la vita, ma un morto ammazzato.

Il dottor valla strinse la torcia e cercò di respirare, la testa che girava leggera e pesante insieme, e allungò le mani per aprire la porta, aria, Dio mio, aria.

Ma nella notte la figura alta dell’infermiere bloccava l’uscita. Ritto, sorriso sulle labbra, un bisturi nella mano destra.

Il dottore lo guardò a lungo, come fin’ora non lo aveva mai guardato.

Camice pulito, perfetto, fino nelle pieghe delle maniche. Solo una macchia di terra, o era sangue?, sul risvolto dei pantaloni. Bianchi. Come la pazzia, come quella stanza dove i malati di mente si perdono, accecati dalle loro ossessioni. Come la verità, che velocemente vorticava mostrandosi per quel che era. Semplice e ovvia.

Quell’uomo, sguardo teso fin dal primo momento, ostilità tangibile in ogni gesto, e assoluta mancanza di ogni conoscenza su pazienti e medicine, quell’uomo non era un infermiere. E il sorriso distorto che gli graffiava il viso, come disegnato da un rasoio, glielo confermava: quello era il caro paziente del letto 17, Napoleone Sanpetronio.

Il cadavere dietro di lui doveva essere il vero l’infermiere della clinica, attirato nel capanno con astuta ferocia, ferito alla testa e ucciso, simulando un improbabile suicidio. Ucciso nella merda, perché è là che l’autorità deve vivere e morire. E marcire, vangelo secondo Sanpetronio.

- Ha letto per bene la mia cartella, dottore? – spezzò il silenzio con una voce calma, divertita.

La cartella l’aveva letta, e ora gli sembrava incredibile non aver capito subito. Ma lui, in fondo, non era uno psichiatra. Cercò di pensare a qualcosa per disorientarlo, e approfittarne per fuggire. Possibilmente vivo, e non con le vene tagliate.