La macchia di alberi si faceva più rada, da quella parte, per finire su una rete metallica, dove un capanno degli attrezzi si ergeva sbilenco. A lato, sul terreno, c’era qualcosa.

Sembrava un corpo, allungato, con la testa reclinata. Un braccio piegato in modo innaturale, come la gamba, che quasi girava su se stessa.

Merda, ecco dov’era finito il suo paziente. E quella posizione disarticolata non gli diceva nulla di buono.

Respirò a fondo. Poi si avvicinò.

Il corpo distava circa venti metri, ma la poca luce della luna era del tutto assorbita dalle fronde degli ultimi alberi. Solo una sagoma, ombra scura nel buio. Poteva bastare.

Quindici metri. Il cuore che batte, il sangue inizia a macchiarsi di paura, e l’assenza di luce rimbomba ogni cosa. L’aria diventa spessa, troppo spessa, e la lingua pastosa, “La saliva, dov’è finita, la saliva?”.

Il dottor Valla, che a volte, da alcune pazienti più anziane, era soprannominato “dottorino”, si fermò, chiuse gli occhi e si mise a correre. Verso l’ingresso della clinica.

Aveva bisogno di una nuova torcia. Aveva bisogno di respirare ancora. Da una finestra intravide il volto della signora Vernissoni, e il profilo dell’infermiere, che forse si era ricordato di portarle il calmante.

La luce del neon l’accolse, donandogli un po’ di lucidità. Il paziente del letto 17 era ferito, o più probabilmente morto. Ma non poteva esserne certo. Doveva sbrigarsi.

Incrociò l’infermiere mentre usciva da una stanza, e in poche frasi spezzettate gli spiegò la situazione.

- Aspetti qui, dottore, vado a prendere un’altra torcia.

Calmo, nemmeno gli avessero detto che la paziente al letto 5 si era cagata addosso, e doveva essere cambiata.

Doveva avene viste tante, nella sua vita da infermiere: malattie, follie, sangue. Amore, odio, morte, incrociarsi di aghi, flebo, merda e urla. Esperienza che ti rende la pelle dura, impenetrabile.

Tornò quasi subito, con una manciata di pile e un’altra torcia.

-Andiamo, - disse il dottore.

Si incamminarono insieme, ferendo la notte con le due torce, e arrivarono fin quasi al capanno.

- Là, - indicò il dottore, - lo vedi, sdraiato accanto alla rete?

L’infermiere fece un gesto vago, con la testa.

Si avvicinarono, e metro dopo metro l’uomo disteso sull’erba si mostrò per quel che era.

Un tubo, largo, agganciato al terreno. Due grossi rami, braccia contorte al buio della paura, erano accatastati uno sull’altro, e una palla blu, floscia, era mezza sepolta lì accanto.

Solo nel buio della paura quell’ammasso di cianfrusaglie poteva essere scambiato per un corpo. Certo, il pallone aveva assunto una forma sinistra, e quei rami contorti potevano vagamente assomigliare a delle dita.

L’infermiere non disse niente. Non chiese dove diavolo era il cadavere del letto 17, o che bello scherzo aveva improvvisato quel giovane medico per movimentare la nottata.

Forse gli era bastato vedere l’espressione del dottore, guance rosse di vergogna e sorriso tirato, e tanto gli bastava.

- Qua abbiamo visto tutto, dottore, torniamo dentro?

Diretto e deciso, pratico.

- Guardiamo ancora un po’ in giro, e se non troviamo il paziente chiamiamo la sicurezza.

Fare ancora quattro passi, smaltire la figuraccia, e poi rientrare. Chissà, magari il paziente se n’era tornato da solo, in camera. Avrebbe dato uno sguardo al capanno, e poi giù, fino al cancello d’ingresso.

Il terreno era molto umido, nonostante il caldo, e le scarpe del dottore assunsero un colore brunastro. L’infermiere camminava sicuro, come al solito, alzando bene gli zoccoli: ci teneva alla pulizia, e stava ben attento a non sporcarsi.

Teneva la torcia dritta, tesa, stretta da una mano forte, avvolta da guanti in lattice indossati più per abitudine che necessità, retaggio di anni tra fluidi e sporcizia.

Il dottor Valla si avvicinò al capanno e con il piede aprì la porta in legno, senza serratura, che lo chiudeva. Nessun cigolio, per fortuna.

La luce illuminò a fasci quel piccolo stanzino maleodorante, di feci di animale, terra, e erba tagliata di fresco.

Due assi tenevano in piedi un rudimentale armadio sbilenco, un cesso di ceramica ammiccava sporco alla luce delle torce.

E un uomo, vestito solo di un paio di mutande macchiate, sedeva sulla tazza, testa reclinata e braccia aperte, come in attesa.

I piedi affondavano nel fango creato dall’umidità e dal sangue colato dalla vene aperte delle braccia. Un bisturi incideva il terreno, con la lama piantata in profondità, verticale.