Forbici, mascherine, canule venose, carta igienica, bottiglie medicinali, guanti in lattice, elettrocardiografi, uno sopra l’altro in un ordine geometrico inintelligibile.

Anche l’infermiere sembrò disorientato da tanto caos, e cercò nei vari scatoloni immergendo le spesse braccia e rovistando con forza. Finalmente estrasse una torcia, potente e affidabile.

L’accese, puntandola sul giovane medico, e gliela diede. Sempre con malagrazia, sempre con un fare spesso, greve.

Come dire, mica lo sai fare il tuo mestiere, se ti fai scappare i malati da sotto gli occhi.

Il dottor Valla rispose a quello sguardo con un sorriso tirato, provò la torcia e se la mise nella tasca del camice.

- Lei dia uno sguardo ai pazienti,- ordinò, professionale, - intanto io faccio un giro nel parco e vediamo di risolvere questa faccenda al più presto.

- Non c’è problema. – rispose l’infermiere.

Si girò e fece per darsene verso il corridoio.

- Mi dica, - lo fermò il dottore,- lei lo conosce il paziente al letto 17?

- Poco. Molto poco. Comunque, se vuole si guardi la cartella, è in sala medici.

- La cartella, già. Prima però sarà meglio trovarlo.

Camminando veloce verso l’ingresso, trovò piacevole e rilassante insultare a mezza voce quell’uomo, l’infermiere, e le sue cartelle del cazzo.

Fuori, la notte, era un sipario chiuso.

Dietro alla coltre oscura, poteva nascondersi qualsiasi cosa, da un pover’uomo in pigiama, sperso nel parco, a un coltello pronto ad assaggiare pelle, muscoli, viscere e sangue. Il trucco stava nel non lasciarsi suggestionare dall’atmosfera cupa, e dalle fantasie che si accalcavano tra le pieghe del cervello.

Il fascio di luce era potente, e illuminava a giorno il sentiero che dall’ingresso piegava a sinistra, per inoltrarsi nel parco. Un debole vento muoveva le ombre sulla ghiaia e l’erba bassa, cullandole dolcemente.

Un profumo umido sfiorava il viso del dottore, ancora in camice bianco, un fantasma laureato e abilitato tra le pieghe della notte.

Che il 17 si facesse trovare presto, altrimenti l’avrebbe mollato lì, e buona notte, pensò il dottore, rimpiangendo la solida linearità della città, con i geometrici edifici in cemento, e i coni di luce gialla, innaturale, sputata dai lampioni.

Il parco diventava sempre più fitto di alberi e rami, e fruscii, man mano che il dottore si inoltrava nel suo cuore verde e nero. Tutto assumeva forme vaghe, e più volte credette di vedere qualcuno tra quelle ombre, ma erano solo miraggi, proiezioni e immagini.

Qualcosa mosse l’erba bassa, appena alla destra del sentiero, dove piegava verso il basso, fino a raggiungere le strada che circondava la clinica.

Puntò il fascio luminoso, e braccia di antiche creature e scheletri malvagi si trasformarono in ciò che in realtà erano: due alberi, e un recinto in ferro battuto a circondare un lago artificiale.

Accelerò il passo con la speranza di trovare il paziente al più presto, chiudere la questione, tornarsene su quel lettino di metallo e dormire almeno per qualche ora.

Seguì il sentiero, con il fascio di luce che lo anticipava di qualche metro.

Poi la luce ebbe un primo singhiozzo. Un battito di ciglia, il buio per un istante.

Poi un altro singhiozzo, più lungo, come a prendere fiato.

Di nuovo luce e poi buio. Solo buio: fine delle batteria.

Il dottore svitò la torcia, tolse le pile, e le inserì. La torcia riprese a funzionare, solo un attimo.

Il buio accecante era mitigato dal chiarore della luna, che ora si stendeva lungo la linea dell’orizzonte. Troppo poco per cercare qualsiasi cosa.

Doveva tornarsene indietro, cercare altre pile, e via, di nuovo nel parco.

Una notte sfortunata, quella, ogni cosa sembrava prendere il verso sbagliato.

Si girò, con gli occhi che si abituavano lentamente al buio, e iniziò a percorrere il sentiero a ritroso.

Forse, prima di tornare nel parco, si sarebbe letto l’anamnesi del paziente. E un po’ di storia recente. Chissà che non scoprisse che fosse normale, per il paziente, uscirsene la notte nel parco per andarsi a rintanare in qualche panchina, a guardare il punto.

Avrebbe dovuto pensarci prima, ma l’ansia di quel letto vuoto aveva vinto sulla ragione.

Si accese una sigaretta, buttò fuori un po’ di fumo, e allungò il passo. Avrebbe chiesto all’infermiere di proseguire le sue ricerche, mentre studiava la cartella.

Poi un rumore secco, di ramo spezzato, reale, quasi tangibile, ad interrompere ogni pensiero.