Era disteso da quasi mezz’ora, divisa bianca, pulita, ora sudata marcia, su un lettino buono solo per visitare i pazienti.

Si alzò, annoiato dal vuoto di quella notte di fine luglio; dal caldo che si fermava in gola, appiccicoso, come una gomma da masticare, e dal ritmico ronzare delle pale della ventola, sul soffitto.

Accese la luce, controllò il telefono, e si guardò intorno. Tutto tranquillo, non aveva di che lamentarsi: meglio una notte insonne per caldo e apatia, che rincorrere tra i corridoi i malanni dei pazienti della clinica.

Si accese una sigaretta, sorridendo al cartello in alluminio che vietava di fumare, e si rilassò. Tra due giorni sarebbe partito, grazie ai soldi racimolati tra sostituzioni e guardie notturne nelle cliniche più disparate. Lavoro saltuario e frammentato, ma remunerativo.

Pensava alle coste lunghe del Portogallo, e all’oceano. Lì, di certo, non avrebbe patito il caldo afoso di Torino versione forno crematore.

Guardò l’ora, le due e diciassette. Meno di sei ore e avrebbe finito il turno. Fanculo il caldo, e la noia. Spense il mozzicone e si distese sul lettino.

Provò ad addormentarsi, cercando di rilassarsi attraverso la respirazione. A volte funzionava. Respiro lungo, apnea e ancora respiro, lungo. Ecco, sentiva già qualche beneficio, i piedi che si fanno lontani, le gambe iniziano ad abbandonarti, sensazione-sdoppiamento-sorriso di Morfeo.

Poi, dei passi.

Dei passi?

L’infermiere non bussò nemmeno, entrò fermandosi di fronte al giovane medico, con sgarbo. Forse aveva sentito il puzzo della sigaretta, e l cosa non gli era piaciuta.

- Dottore, la signora Vernissoni è agitata. Non riesce a dormire e rischia di svegliare tutti i pazienti.

Uno è già riuscito a svegliarlo, pensò il dottor Valla.

- Va bene, tanto di mettersi a dormire non c’era verso.

Si alzò dal lettino, stirandosi con lunghi gesti il camice stropicciato.

- Perché è ricoverata, la paziente?

- Psicosi di qualche tipo, non so, non sono un medico. E’ al letto 14. Si guardi la cartella.

Era sempre un piacere trattare con questi infermieri.

Il dottore uscì dalla stanza e raggiunse la sala Medici, dove le cartelle, vita, malanni e vecchi traumi, stavano impilate in un angolo, come in attesa.

Prese il faldone blu con un 14 scritto in pennarello, e iniziò a sfogliarlo. Pagine e pagine parlavano fitte di quasi due mesi di ricovero. Diagnosi: disturbo comportamentale associato a forte depressione. Frequenti attacchi di panico. Iniziale abulia.

Niente male.

Dopo aver dato uno sguardo attento alla terapia, chiamò l’infermiere.

- Portami dalla paziente.

Dal corridoio nascevano almeno dieci stanze, due letti per ogni stanza, venti potenziali problemi per quella notte.

Ad ogni passo il rimpianto per quell’angolo di noia aumentava: provare ad addormentarsi, pur senza riuscirci, era di certo preferibile che cercar di far dormire i pazienti. Ma d’altronde era pagato per questo, quella notte, per far dormire tranquilla la gente.

La signora Vernissoni era una donna minuta, occhi spiritati, fasciata da una lunga sottoveste azzurra. Era in piedi, di fronte all’ampia finestra che dava sul parco delle clinica. Indicava qualcosa, là fuori.

- L’ho visto, Dio mio, l’ho visto!

Gridava sottovoce, quattro parole a formare una cantilena ipnotica, irritante. Ma cosa aveva visto? Questo non era dato saperlo.

- Si calmi, signora Vernissoni. Si rimetta a letto e mi dica cosa c’è che non va.

- Dottore, l’ho visto. Era lì fuori, nemmeno cinque minuti fa. Mi ha guardata, ed è fuggito.

- Venga qui, signora. Si sieda. Ecco, ora mi dica, chi ha visto nel parco?

- Un’ombra, alta, scura. Aveva occhi accesi, e il vestito macchiato di sangue.

Ombre. Doveva essercene una per ogni paziente ricoverato. Ombre nate da menti malate e spigolose, pronte ad accecarsi con fantasie piuttosto che guardare in faccia il riflesso della realtà. Il dottore sbirciò il parco, e vide solo oscurità, nient’altro. Morbida oscurità.

- E’ la prima volta che la vede, quest’ombra?

- No! Dio, ora che sa che l’ho vista, verrà ad uccidermi. Povera me, povera me.

- Non si preoccupi, signora, qui è al scuro, - e fece un ampio gesto, a comprendere se stesso e l’infermiere, che grugniva impaziente, -Le darò quindici gocce di Lexotan, e vedrà che così si rilassa e torna a dormire.

La donna, braccia sottili come steli d’erba, strinse la mano del dottore.