Film-conflitto espresso alla massima potenza. Da un lato, un criminale nazista tristemente famoso, Joseph Mengele, dall’altro, un figlio, che sgomento di fronte a tanta mostruosità, si illude che le armi del mestiere (avvocato), possano bastare per capire l’operato del genitore, il perché e il percome di tanta ferocia; troppo onni-potente il primo, troppo fragile il secondo.
Più che la banalità del male, stavolta pare di essere di fronte ad un uomo che per quanto possa apparire paradossale, sembra un santo (con tanto di venerazione da parte di alcuni…) che anziché miracoli spande freddezza e autogiustificazioni agghiaccianti tutt’attorno, facendosi in fin dei conti sberleffi dei tentativi mosci del figlio di scalfire la corazza che con gli anni si è cucito addosso, che dopo due tentativi (abortiti…) di far fuori cotanta figura, pare a tratti marciarci di brutto (sta di fatto che Hermann M. mai arrivò a denunciare il genitore…).
Distante anni luce da da I ragazzi venuti dal Brasile (inutile stilare classifiche di merito, semplicemente due approcci molto diversi alla figura di Mengele: una dimensione tra la fanta e la scienza, nel primo, molto realistica stavolta…), il My Father di Egidio Eronico brilla di luce propria: per metà la descrizione delle psicologie di due uomini incapaci di comprendere e di comprendersi, per l’altra metà, un invito a non dimenticare.
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