Gli metto il guinzaglio attorno al collo.
Lo faccio ancora per giocare. Anche se mi rendo conto che si tratta di un gioco crudele. Lo faccio per spaventarlo. Lui ci sta. Stringo. E poi ancora. Sempre un po’ di più. La piega della sua bocca si allunga in un sorriso sornione, e le labbra si fanno sottili e livide. Vado avanti a stringere.
Vado oltre.
Fino al rantolo.
Subito non capisco. Di primo acchito assomiglia al gemito di un orgasmo. Ma è anche l’ultimo segno di vita prima che gli occhi dello sconosciuto esplodano fuori come due preservativi gonfiati, dove biancheggiano le sue pupille, come le tracce dense di un residuo di sesso.
E’ finito, è tutto finito.
Mollo la presa di colpo. Sono sudato. Mi giro, e faccio un passo verso la porta, la spingo di spalle con la vita fuori che mi esplode nel cervello, e un coro di latrati di cani che crea una sorta di melodia disordinata, come un corcerto fatto solo con dissonanze armoniche.
Ritorno dentro ancora per un secondo. Quasi a sincerarmi che tutto sia sotto controllo. Un ultimo colpo d’occhio al corpo dello sconosciuto. Realizzo che devo sparire in fretta. Faccio un passo indietro ed esco una volta per tutte.
Un raggio di sole mi penetra il cervello, e mi scuote come una fucilata. Non mi fermo. Cammino con l’ansia che mi smorza il respiro, e una goccia di sudore mi scivola sugli occhi appannandomi la vista.
Nessuno sembra fare caso a me. Ognuno con un cane al fianco. In una fila disordinata che si muove contromano diretta verso il padiglione allestito sul fondo del lungo lago dove nel pomeriggio inizierà la mostra canina.
Faccio solo pochi metri. Non c’è una nuvola in giro, e il sole mi scalda la pelle umida. Oltre il muro di bancarelle la presenza invisibile del lago si spande tutto attorno con una pennellata di luce compatta, morbida, rassicurante.
Respiro il profumo dolciastro di zucchero filato, di croccante e ciambelle. Odore di carne arrosto, di spezie, e le voci. Tante, in un insieme indistinto che si accavalla. Rumori di bimbi, di passi sulla ghiaia, risate leggere, brusio di gesti. Musica. Latino americana, fiati peruviani, pop delle radio private, ritmi di periferia. Annunci, coppie per mano, palloncini, camicie a diciannove euro, seggiole e cesti africani, ciondoli, conchiglie, tessuti, boxer in offerta, in un vortice di colori che mi appanna la vista. E sul fondo il guaito di un cane lacerante come un lametta sul vetro.
Con un calcio sposto un paio di lattine vuote di birra e mi siedo su un pezzo di marciapiede libero con l’odore di un incenso che mi stuzzica il naso.
Fisso la porta della toilette. E il mio mondo in questo momento sembra concentrarsi tutto lì. Resto in attesa di qualcosa.
Mi distrae l’incedere lento di tre levrieri al guinzaglio di un tipo muscoloso in maglietta aderente senza maniche e coda di cavallo. Hanno il muso dritto e il pelo gonfio, e mi passano davanti, a una spanna dal naso, quasi senza neanche toccare terra, tanto sembrano leggeri. Gli animali che mi sfilano di fronte coprono la vista solo per un istante, e in quell’istante non succede nulla.
La porta della toelette è sempre là. Immobile. Gelida.
Ma sono sicuro che qualcuno, prima o poi, vorrà pisciare. Entrerà per soddisfare la sua voglia, ma strabuzzerà gli occhi, forse griderà, chissà come reagirà di fronte a una sorpresa simile. E io non voglio perdermi questo spettacolo. Voglio gustarmi il frutto del mio lavoro.
Non ho fretta.
Ho incominciato così, per caso.
E adesso il gioco può continuare.
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