Capelli neri e vaporosi, un qipao coloratissimo a taglio corto che mette in evidenza le gambe slanciate e toniche, un profilo elegante: Jin Xing è decisamente una donna che non passa inosservata, e non solo per la sua storia personale di ex colonnello dell’esercito cinese diventato donna all’età di 28 anni, come descritto nel suo libro edito da Sonzogno, Volevo diventare una ballerina. Accingendoci a incontrarla, intuiamo subito di avere di fronte una persona energica e fuori del comune (o come direbbero i cinesi, una “píng yì jìn rén”) che ha perseguito il proprio sogno di essere ballerina e coreografa osando sfidare il destino, che vorrebbe affidare al dato biologico l’identità più vera di un individuo, uomo o donna che sia.
Incontriamo Jin Xing nel foyer dell’Ambra Palace, nel cuore della Roma cinese, cominciando subito dall’esprimere apprezzamenti sul libro, un intrigante miscuglio di “fiaba” avventurosa ed esperienza traumatica, legata soprattutto all’operazione. Poi, dopo le presentazioni, diamo inizio all’intervista vera e propria.
Negli anni più recenti in Cina, si è assistito a un fenomeno sempre più dilagante e deleterio riguardante il mondo dell’editoria: i curatori non sembrano affatto interessati alla qualità delle opere pubblicate, quanto piuttosto alla possibilità di far soldi grazie ai libri, e in special modo quelli scritti da personaggi famosi. Ciò va molto spesso a scapito della sincerità di queste operazioni, più volte a sfruttare l’immagine commerciale e accattivante del personaggio in questione che non a curare l’onestà della scrittura in sé. Premetto che io non sono una scrittrice professionista, e non so se un domani scriverò ancora qualcosa, ma una cosa è certa: quando mi è stato chiesto di scrivere un’autobiografia sulla mia esperienza da alcuni editori cinesi, ho decisamente rifiutato, per via delle questioni che ho menzionato prima e anche perché da un lato avevo un’idea forse un po’ antiquata dell’autobiografia e dall’altro gli editori cinesi sembravano non concedermi alcuno spazio per riflettere veramente sulla mia esperienza, in modo da renderla vera e autentica anche su carta. Successivamente, dopo una mia performance in Francia, una casa editrice francese di grande fama e serietà, la Robert Laffont, si è fatta avanti per propormi il progetto, e io ho capito che potevo fidarmi ciecamente della loro competenza, anche perché non si sono mostrati affatto delusi dalla mia inesperienza nel campo della scrittura. Anzi, mi hanno concesso tutto il tempo possibile per concepire il libro nella maniera giusta. Così, grazie all’interesse della giornalista Catherine Texier, che ha raccolto la mia testimonianza, ho completato la stesura del libro in cinese nell’arco di sei mesi, e poi le mie pagine sono state tradotte in francese e il libro è uscito dunque direttamente in Francia, invece che in Cina.
Sì. Il problema essenziale dell’editoria in lingua cinese non riguarda tanto le competenze all’interno delle case editrici, quanto l’esistenza di due modelli diversi di editoria: quella taiwanese, più simile alla realtà che c’è in Europa, e quella della Repubblica Popolare, dove invece vige una forte censura. Sul mio libro, infatti, alcune parti sono state “purgate”, soprattutto quella riguardante la mia storia d’amore con una figura importante del partito. Inoltre, in Cina, ci sono state molte critiche riguardo le mie prime performance a Pechino e riguardo tanti altri miei progetti. Anche per questi motivi, ho deciso che era meglio non pubblicare il libro in Cina, oltre che per la mentalità dedita esclusivamente a fare denaro alla svelta senza curare veramente i contenuti di un’opera. Adesso si fa un gran parlare del mio libro in Cina, visto che è uscito anche nel mio paese, ma io a tutt’oggi non ho ricevuto alcun ricavato dalle vendite perché... il sistema è molto simile a quello della mafia: io posso anche provare a chiedere se il libro ha venduto tante copie, ma ciò che ottengo è sempre la solita risposta - no, il libro non si sta vendendo, non sta avendo successo... ma non fatemi ridere! È chiaro che stanno mentendo, perché il libro vende eccome!
Verissimo. È terribile. Non esiste una vera legge sul copyright in Cina, e quindi qualunque autore, che sia australiano, americano o cinese, non guadagna nulla dalla vendita dei suoi libri in Cina, perché si tratta di opere vendute sottobanco e di nascosto. La Cina è così, e come si dice, c’est la vie. I Cinesi sono maestri nell’arte della contraffazione e del mercato nero, ma con questo danneggiano soprattutto le loro creazioni, basti pensare al mercato del dvd... nessuno va più al cinema perché trovare un film nel mercato della pirateria è più economico e veloce. È davvero terribile. Sono gli stessi cinesi a rovinare il proprio universo artistico!
Lei crede però che ci sia speranza che le cose migliorino per gli artisti cinesi?
Spero di sì... almeno, credo che avverrà a lungo termine. Molti artisti preferiscono ancora lasciare il paese per dar libero sfogo alla propria creatività, senza censure imposte dal governo. Però credo anche che i cinesi amino molto il proprio paese, e che viverci possa rappresentare un modo per riallacciare le proprie esigenze interiori alle radici culturali a cui apparteniamo, che in fondo rappresentano il nutrimento principale per la vita di un artista - quella forza particolare che solo il recupero delle proprie origini può trasmettere, generando ulteriore creatività e dando impulso per nuove idee. Andare all’estero può dare l’illusione di respirare un’aria più libera, ma sotto sotto non è questo che i cinesi vogliono veramente, perché le loro radici culturali sono altrove. In generale, credo che le cose stiano cambiando in Cina. Certo, adesso è un paese sotto i riflettori per via dell’economia così fiorente... è un paese che riveste molte attrattive per gli stranieri, ma anche per chi ci vive, sta diventando un posto del tutto nuovo. Le città sono sempre più grandi e cambiano a un ritmo vertiginoso... Wow! Io stessa ne sono affascinata, visto che sono tornata in Cina ormai da diversi anni. Stiamo assistendo alla creazione di una superpotenza, ma la cosa oltre che affascinare dà anche un senso di profonda frustrazione, perché le cose stanno cambiando troppo velocemente. E sono ancora tanti i problemi che vanno risolti - come per esempio quello dell’istruzione.
No, credo piuttosto che esistano due livelli distinti all’interno del partito: quello superiore - il governo centrale - è intenzionato a cambiare direzione, dando agli artisti la possibilità di esprimersi più liberamente. Però a livello provinciale, le cose sono ancora molto simili al passato: i politici locali sono molto severi sia con la popolazione che con gli artisti, e c’è anche molta corruzione. La situazione è ancora difficile, e ci vorrà del tempo perché cambi definitivamente per il meglio. Soprattutto, sarà a livello locale che le cose dovranno migliorare e ammodernarsi rispetto alle vecchie abitudini, dure a morire.
In Cina abbiamo un’espressione idiomatica che suona così: “jiāng shān lún liú zhuàn” (il potere muta, passando da un paese all’altro: adesso è il nostro turno). Non ho dubbi sul futuro della Cina; ci sono molte opportunità da cogliere perché diventi il paese più forte e importante del mondo nel ventunesimo secolo, e il governo ne è pienamente consapevole, ma nello stesso tempo sono ancora molti gli aspetti con cui dobbiamo venire a patti. Credo sia questa la ragione che mi ha spinto a tornare in Cina: ho vissuto in molti paesi - Stati Uniti, Belgio, Italia, Francia - ma alla fine ho deciso di tornare in Cina per essere testimone dei cambiamenti in atto, perché so che avranno una rilevanza fondamentale sia per la Cina che per il mondo intero.
Credo che la mentalità sia la stessa di allora, ma i singoli artisti siano più motivati a migliorare e ad affermarsi in quanto individui per le loro qualità artistiche che lavorative. Questo è un aspetto fondamentale per tutta la società contemporanea cinese: la tensione fra i bisogni della collettività e l’affermazione dell’individuo. La vera sfida del cambiamento in atto in Cina riguarda proprio l’equilibrio fra queste due sfere, e gli artisti non possono che beneficiare della spinta sempre più pressante verso l’autorealizzazione, impensabile fino a pochi decenni fa. Per quanto riguarda il mondo della danza in particolare, dal punto di vista tecnico e dell’insegnamento in Cina le cose sono ineccepibili, ma le motivazioni per cui si sceglie questa strada non sono sempre chiare a chi decide di intraprenderla. Perché danzo? Per ottenere un buon lavoro? O per esprimere la mia interiorità? O forse per avere un bel fisico? Trovare la giusta motivazione per ballare è particolarmente difficile oggi in Cina soprattutto se si sceglie la danza contemporanea, rispetto a quella tradizionale, perché il governo non finanzia nessun progetto riguardante l’arte contemporanea. Gli artisti devono arrangiarsi come possono, e per i giovani questo non è certo incoraggiante. Per questo molti lasciano la Cina: perché competere con un governo refrattario alla danza contemporanea spesso è frustrante, e richiede un spirito troppo combattivo. Sarà forse per essere stata tanti anni nell’esercito, ma io per fortuna non ne sono affatto priva...
Beh, non c’è una risposta univoca a questa domanda. Quando ero bambino sognavo di diventare un grande ballerino, poi crescendo ho desiderato essere una bella donna... adesso, a 39 anni, non m’importa molto sapere se sono più l’una o l’altra cosa, né in che modo gli altri mi considerino - se uomo, donna, transgender o una grande artista. Ciò che m’importa veramente, per me stessa e per gli altri, è essere una bella persona.
Credo che le cose principali da chiedere all’esistenza siano l’uguaglianza e la libertà fra le persone, pur nelle loro diversità. Guardo alla vita con occhi liberi da pregiudizi, senza giudicare gli altri per ciò che fanno, e spero che gli altri facciano lo stesso con me.
Naturalmente, il tipo di vita che ho condotto mi ha aiutato a vedere le cose in maniera più aperta e tollerante, lontana dai pregiudizi, ma mi ha anche permesso di accettare tutti gli aspetti della realtà per come si verificavano e si verificano tutt’ora nella mia vita, sia quelli positivi che quelli negativi. Per me è importante prendere tutto quello che la vita ci dona, e farne tesoro anche se si tratta di qualcosa che può farci star male. È questa la magia della vita: che non sai mai che cosa ti accadrà. L’importante è non lamentarsi ma accettare tutto con pazienza e umiltà. Come si dice in Cina, “shùn qí zì rán”: segui il corso delle cose e della natura.
A dire il vero, credo che la creatività sia sempre collegata al proprio atteggiamento nei confronti della vita, e che dunque non possa esserci un unico momento da ricordare come assoluto rispetto a tutti gli altri che compongono la carriera di un artista. Tutto per me è collegato - la mia performance sul palco e la mia vita al di fuori del palco. Scindere alcuni momenti da tutto il resto sarebbe sbagliato, e comunque per me risulterebbe difficile, perché sono sempre i critici a giudicare una performance come più importante rispetto alle altre: per me, ognuna di esse ha un valore inestimabile, così come la mia esperienza di madre ha un valore inestimabile nella mia vita al di fuori dell’arte.
Che rapporto ha con i suoi figli?
Sono una madre molto dura, e antepongo sempre la necessità di dare un’educazione appropriata ai miei figli rispetto all’amore. Cerco di non viziarli, memore anche del fatto che la politica del figlio unico, così popolare in Cina nelle decadi scorse, ha prodotto una generazione di figli deboli e viziati, incapaci di vedere la realtà in maniera realistica e sensata. Credo che questa generazione debole ed egoista costituisca uno dei problemi principali che la Cina si ritroverà ad affrontare nel futuro immediato.
Quanti anni hanno i suoi figli?
Sei, quattro e tre anni. Ho molto lavoro da fare.
È difficile conciliare il lavoro di madre con quello di coreografa?
Cerco di fare del mio meglio e di dare loro il massimo. Mio marito mi dà spesso una mano, e la presenza di mia madre e delle tate è anche di grande aiuto. Mi ritengo fortunata per questo.
Credo che la cosa più importante sia scegliere le caratteristiche che si sentono più vicine al proprio cuore, piuttosto che gli aspetti materiali che un dato paese può offrirci. Quando ero adolescente, diciamo prima dei 24 anni, avevo tanti desideri e cercavo di seguirli costantemente. Poi però ho capito che dovevo imparare ad ascoltare me stessa in maniera più autentica e senza falsi bisogni, piuttosto che rincorrere un benessere esteriore e fasullo. Credo che dopo la fase dell’adolescenza sia necessario rinunciare a qualcosa, per crescere e diventare degli individui più consapevoli. La danza mi aiuta molto in questo, perché è un ottimo veicolo per ascoltare la mia interiorità senza interferenze. Spesso attorno a me vedo persone “bloccate” dalla propria bramosia e dai propri desideri e mi dico che nella vita bisogna imparare a essere realistici, accettando i fallimenti e la naturale fallacia della nostra condizione di esseri umani e nello stesso tempo utlizzare questa forma di realismo per concentrarsi ad ascoltare noi stessi e le nostre esigenze più vere, indipendentemente da dove viviamo.
Penso che sì, magari fra 10 anni, mi piacerebbe scrivere un libro per bambini, ma mi piace anche pensare che la mia vita sia al di fuori di piani prestabiliti. Nel futuro potrei fare qualsiasi cosa oltre che danzare, magari anche entrare in politica, perché no? Soprattutto, non intendo usare la mia posizione di artista per obbligare qualcuno a pensare qualcosa o per trarne un mio personale profitto: vorrei soltanto donare la mia esperienza alle altre persone, e raccontare quello che ho provato in determinate circostanze. Credo che non si possa educare la gente, ma solo influenzarla attraverso le proprie gesta.
Vivo a Shanghai, dove divido il tempo fra il lavoro di coreografa e di madre.
A quale progetto sta lavorando attualmente?
Sono appena tornata dalla Biennale di Venezia, dove mi solo esibita in una performance. A Shanghai, invece, sto organizzando il primo Festival Internazionale di Danza Contemporanea mai realizzato. Si chiamerà The Shanghai Dance. Quest’impresa rappresenta una grande sfida al governo cinese, visto che non esistono finanziamenti ai progetti di danza contemporanea in Cina, perché il governo non la considera altrettanto importante di quella tradizionale. È una bella sfida, e spero di farcela a realizzare il mio progetto, per portare la danza contemporanea nel mio paese. Non avrò sponsor di nessun tipo, quindi sarà una bella lotta fare tutto con le mie sole forze.
Ha ancora il pub “Half Dream” a Pechino, di cui parla nel libro?
No, era solo un esperimento temporaneo. Magari quando avrò ottant’anni ne aprirò un altro, chi lo sa!
È stato bello tornare nella mia città natale, per cui provo sempre forti sensazioni, nonostante obbiettivamente sia un posto ancora molto arretrato dove i cambiamenti avvengono lentamente.
Che rapporto ha con sua madre?
Molto bello, e anche con mio padre. Mi hanno aiutato molto e mi aiutano tutt’ora, soprattutto nell’allevare i bambini. Rispetto molto i miei genitori per avermi dato la vita e mi preoccupo costantemente per loro.
L’intervista finisce, ma l’incanto del ballo rimane.
Un ringraziamento a Yáng Wén per la consulenza linguistica e a Silvia Introzzi per la disponibilità.
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