Ora, Merlin Vandoor sta per essere sfrattato dalla sua tomba, essendo scaduto il termine per la concessione del terreno; i suoi resti verranno consegnati ai genitori ultracentenari ancora in vita. Una cerimonia fredda, spiccia, burocratica, a cui Abel può presenziare solo in qualità di esponente della Non Human Defence, insieme ai due vecchi vampiri e a un paio di funzionari della dirigenza del cimitero, ben felici di sbarazzarsi del loro scomodo ospite. Da anni, infatti, quasi ogni notte, la tomba è presa d’assalto da svitati che si ubriacano, si intrippano, ballano e cantano, celebrano messe nere, scopano, piangono, si abbandonano a crisi isteriche e di vandalismo, invocando il loro totem: la celebre statua di Merlin nudo, con la testa da cherubino rovesciata in estasi mentre si scarnifica il petto con gli artigli e si incula con un vibratore, come ha fatto realmente durante un concerto cantando I fuck myself. Nessuno come Merlin ha saputo incendiare le fantasie umane più deliranti sul vampiro Dio, o Diavolo, o comunque manifestazione del Potere Ultraterreno. I vampiri del servizio d’ordine respingevano brutalmente gli umani che saltavano sul palco per morderlo. Lui prendeva solo due, tre gocce da tutti e da nessuno, succhiando questo e quello come un bambino che assaggia un leccalecca e poi ne vuole un altro. Cantava che si fotteva da solo, godeva da solo, e non aveva bisogno di nessuno. Naturalmente, lo adoravano per questo.
I becchini sollevano la lucida cassa nera, cominciano a dissigillare il coperchio. Abel sente il suo cuore battere velocemente, per quanto sia possibile a un cuore un po’ zombi.
Nella bara aperta, apparentemente non c’è nulla, ma… una folata assassina di vento fa sollevare dal raso grigio che la fodera una polvere fine, dello stesso grigio, una polvere acre e pungente, che turbina, vortica, si ficca negli occhi e nei polmoni di Abel. Polvere di mito che acceca, fa tossire e sputare. La fine che fanno i miti, in genere.
Non si sa se è davvero polvere di quel mito o di un altro. In ogni modo, non ne resta molta.
Abel si trova quasi sempre bene in compagnia dei vampiri. Crede che sia per armonia di contrasti: lui, con quella twilight zone di morte che ha dentro e lo ha spinto a diventare perito necroscopico, a voler studiare i segreti della morte, per indagare il mistero del trapasso e di quello che c’è oltre, è attirato da questi esseri ieratici, puri, severi, che possiedono il segreto di una virtuale vita eterna. Più semplicemente, forse, è perché i vampiri non sono pettegoli. Non sentirai mai un vampiro parlare della cognata che è scappata con l’idraulico. Niente frivolezze, niente confidenze triviali, niente di quel chiacchiericcio melenso, infoiato e fatuo che è il più desolante dei suoni epocali. Se i vampiri hanno un difetto, è che sono troppo silenziosi, ma stanotte Padre Gabriel è anche troppo loquace.
“Subito dopo la sua scomparsa, sono fiorite una quantità di leggende metropolitane. Che Merlin era affiliato alle sette sataniche, ai misteri orfici, e sia stato ucciso nel corso di pratiche rituali, per aver irritato qualche potenza soprannaturale. Che è stato sbranato dalle donne della setta delle baccanti. Che lo ha eliminato il Governo perché in possesso di informazioni riservate. Che lo hanno fatto fuori la mafia, i terroristi islamici. Che era sempre stato un agente segreto, e ha semplicemente cambiato identità. Che è salito su una nave spaziale con gli alieni.”
E’ appunto una di queste leggende metropolitane che Abel e Padre Gabriel stanno andando a verificare, presso la sede della megafinanziaria Mojo Company, un edificio in vetrocemento di trenta piani che sorge nella sezione 11 dell’hinterland, a ridosso del bronx degli zombi poveri. Il presidente della compagnia, Morgan Vandoor, sostiene di essere la defunta star. A sostegno della sua affermazione, c’è il fatto è che la Mojo Company è stata fondata da Merlin, quand’era ancora in vita.
Morgan li riceve con i modi gelidi e untuosi del grande finanziere.
“Ti ricordi di me?” gli chiede Padre Gabriel.
“Come no. Il vampiretto che ho fatto prima di uscire di scena.”
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