Hong Kong, 2006
Quando il sole morì, il cielo divenne un drappo di seta amaranto, screziato da irregolari lacerazioni cremisi. Jeff rimase ancora qualche attimo a osservare la grande vela ad ala di pipistrello che vibrava in bando, mentre la giunca riduceva la velocità per entrare nella baia. Non si chiamava realmente Jeff ma, tanti anni prima, aveva deciso che Joseph non gli piaceva, era troppo francese e lui si sentiva corso. Così aveva scelto Jeff che suonava inglese ma, sussurrato, recava il sapore del gergo di casa sua. E nessuno chiamava mai il suo nome ad alta voce.
Sul mare aleggiava il miscuglio di odori indefinibili tipico dei porti asiatici: umori salmastri, kerosene e cibo cotto a vapore. Con cautela Ko-Un-Orecchio, il timoniere, spinse il battello nel dedalo di canali di case galleggianti, sampan e wallah-wallah, avvicinandosi alla banchina che ospitava il mercato del pesce.
Aberdeen, il rifugio degli Hoklo, aveva perso la pittoresca atmosfera di un tempo. Gli Zingari del Mare si erano convinti che, dopotutto, le vecchie superstizioni fossero uno scomodo retaggio del passato. Solo qualche vecchio romantico si ostinava a ripetere che il cielo sarebbe caduto se si fossero trasferiti sulla terraferma, ma senza troppa convinzione. Aberdeen era diventata un'attrazione e la maggior parte dei sampan serviva per portare i turisti gweilo sino al ristorante Jumbo, decorato con festoni, luminarie e draghi di legno dipinto, degni di una parata di carnevale.
Oltre i capannoni e il deposito dei camion del pesce, Jeff distingueva la collina di Peel Rise, il cimitero buddista che anche di notte si popola di spiriti. Nel cielo passò rombando l’ultimo aereo in arrivo in picchiata verso Lantau, il nuovissimo aeroporto che aveva sostituito la vecchia pista di Kai Tak, protesa tra la penisola di Kowloon e l’isola di Victoria. Tutt’intorno le luci della baia sembravano lottare con l’oscurità incombente.
A Jeff piaceva Hong Kong. Dava l’impressione di trovarsi costantemente sull’Orlo, in bilico tra mondi differenti, che riuscivano a trovare un punto di contatto a dispetto delle differenze culturali. Un poco gli ricordava Bastia.
Jeff consultò l’orologio. Era il momento di prepararsi. Scese sottocoperta lasciando a Ko il compito di trovare un punto d’attracco. Venivano dal fiume Shum Chun, per una rotta illegale. Come Ko fosse riuscito a eludere i controlli della polizia costiera era solo un altro dei misteri che accompagnavano quel contratto. Il committente doveva essere una persona influente, capace di aprire i cancelli che, per la maggior parte dei contrabbandieri di Guangzhou, restavano sigillati.
Sottocoperta, Jeff aprì la valigia di pelle dove aveva radunato l’occorrente. Sfilò il maglione girocollo, i jeans e le scarpe da ginnastica, restando per qualche attimo nudo di fronte a uno specchio che aveva visto tempi migliori. Alla luce della lampada a olio, il corpo muscoloso e compatto ricordava una delle figure guerriere del Monte Cinto, rimaste per secoli a guardia delle tradizioni di un popolo di pirati e naviganti spazzato via dall’esplosione di Cantorini. Un’altra Era... Il tatuaggio scaramantico si avvolgeva intorno al braccio sinistro come un serpente.
Jeff indossò la biancheria pulita, provando una piacevole sensazione mentre allacciava la camicia di seta leggermente profumata. Come i pantaloni di vigogna, gli calzava a pennello. Mocassini italiani; papillon, giacca di buon taglio e un lungo spolverino di seta nera completato da una sciarpa color ghiaccio.
"Un figurino - soggiunse controllandosi allo specchio. - Pronto per lo spettacolo."
Un cigolio annunciò Ko. Dall’esterno giungevano lo sciaguattare delle onde contro le murate e i richiami dei marinai. "Siamo arrivati."
Jeff passò un velo di gel sulla capigliatura corvina poi si volse verso il vecchio contrabbandiere. "Bene, non perdiamo altro tempo. Ho fretta di terminare il Lavoro."
Lavoro. Proprio così lo chiamava, come se fosse una normale attività. Un impiego che da vent’anni riempiva tutti i suoi giorni e tutte le sue notti. Non sapeva fare altro e forse il suo Lavoro era un rifugio, un santuario dove nascondersi quando la sensazione d’inutilità veniva ad assalirlo. Jeff era venuto a Hong Kong per uccidere quattro persone, ma parlare esplicitamente della morte gli metteva tristezza.
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