Al terzo romanzo il matematico argentino poco più che quarantenne (è nato nel 1962) Guillermo Martínez ci offre uno splendido esempio di come si possa cavalcare l’onda del thriller (pseudo) colto (al di là del fenomeno Dan Brown, sono diversi anni che si coniuga l’indagine coi misteri – veri o presunti – di personaggi storici e/o di opere d’arte famose) e al tempo stesso rifarsi alla nobile ma ormai decaduta scuola del giallo-enigma che ha avuto il massimo momento di splendore negli anni Trenta.
Già dall’inizio l’io narrante, che si pone come memoria storica di avvenimenti persi nel passato e, vittorianamente, da riscoprire perché il principale protagonista è morto, ricorda gli Watson e gli Hastings e i loro meno famosi epigoni. L’azione è poi ambientata, nonostante il romanzo sia apparso in lingua spagnola e l’autore sia argentino, a Oxford con tutta una serie di location tipicamente old age: prati verdi, tempo bizzarro, integerrimi funzionari di polizia, giovani fanciulle sportive e sensuali. Se non fosse per qualche concessione alla modernità (il disinibito approccio tra il narratore anonimo e la sua Lorna e l’esistenza della posta elettronica e dei cellulari) potremmo benissimo essere nei favolosi Thirties.
Anche la vicenda – una serie di delitti cadenzati da una serie logico-matematica – risente molto di certe invenzioni da giallo-enigma: solo che qui l’autore fa sfoggio delle sue conoscenze matematiche e, soprattutto nella prima parte, infligge al lettore dialoghi che in realtà sono scambi di monologhi su alcuni problemi risolti e irrisolti della sua amata disciplina. La vicenda non raggiunge però i virtuosismi alla Christie – la serie omicida a cui fa riferimento il titolo italiano si ferma appena a quattro – e in effetti a due terzi del romanzo si ha l’impressione che il ritmo narrativo sia destinato a spegnersi mestamente e che la vicenda si indirizzi a una conclusione scontata.
Per fortuna il finale imprime una brusca e inattesa accelerazione all’inchiesta e così le profonde e dotte elucubrazioni delle pagine precedenti trovano una loro giustificazione: il finto finale e quello “vero”, entrambi plausibili, deliziano il lettore anche se ci saremmo attesi dall’autore una soluzione meno consolatoria e più problematica, per dirla con Umberto Eco.
Non si sa in effetti se l’intreccio noir sia al servizio della divulgazione di alcune aspetti del pensiero matematico che stanno a cuore all’autore e al protagonista (che non a caso hanno in comune l’origine, la borsa di studio a Oxford e fors’anche il nome proprio) o viceversa: il romanzo non risolve la contraddizione e lascia un po’ di amaro in bocca.
Meno rutilante di Brown e dei suoi epigoni, meno ingegnoso della Christie, La serie di Oxford sembra la diligente prova di uno studente alle prese con ingredienti di cui non sa sfruttare le enormi potenzialità.
Lo attendiamo speranzosi alla prossima prova.
Voto: 6
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