Finalmente il secondo capitolo della Trilogia di Magdeburg.
Già dalle prime battute si è ricrea il legame con l’Eretico: l’ambiente, i personaggi, le chiavi di lettura, lo stile appartengono profondamente alla scelta stilistica creata per il primo episodio. Non pare nemmeno di aver staccato rispetto al romanzo precedente, la continuità è un dato di fatto.
Nello stesso tempo però si affaccia una sorta di “variazione cromatica”, variazione che si potrebbe definire orientale: tanto il primo romanzo della trilogia era connotato al rosso e all’antracite - molto sangue, un paesaggio bruciato e invaso dalla cenere: un paesaggio per certi aspetti “sporco” – tanto La Furia vira al bianco, il colore del lutto della terra dei morti: il biancore della neve, il biancore delle ossa che spuntano dalla radura, ed intorno un colore scuro, indefinibile ma netto.
Colori primari.
La situazione diviene più rarefatta, più aerea: lo sfondo è territorio di ombre e demoni, ma sono molti i termini che imprimono un’impressione di assenza di peso, soprattutto nella prima parte.
Anche quando arriva il sangue, e ne arriva parecchio, il testo mantiene ben salda la coerenza dello stile.
E’ una scrittura più sensoriale, di impatto molto forte e minimalista.
Per tutta la prima parte del romanzo crea l’aspettativa per l’incontro – che si avverte inevitabile – tra l’Eretico e il Principe.
Dal momento dell’incontro tra Wulfgar e Dekken ha inizio un mutamento della narrazione, al primo impatto sconcertante.
E’ come se da quel momento in poi si introducesse una nota stonata, una sorta di incoerenza, di volgarità nel comportamento dei “portatori dei simboli” che, fuggiti ognuno da qualcosa, tornano “dentro”. Stark, Mikla, Klein tornano a ciò da cui sono fuggiti: solo verso la fine, solo quando il progetto di onnipotenza di Dekken pare sfaldarsi si inizia a intuire che potrebbe esservi una sorta di disegno che deve andare a compiersi, che gli equilibri verranno ristabiliti, prende corpo l’idea che forme contengano altre forme: che si tratta insomma di una specie di viaggio al termine della notte per il quale si deve attendere un’altra puntata.
Una scena molto forte, una chiave di svolta, si ha nel momento in cui Wulfgar bacia Dekken: l’uno e il suo doppio, l’uno il riflesso dell’altro, uguali e diversi. E’ un’immagine forte, incestuosa: volgare non per questo, ma per il patto infame che sembra suggellare.
Simbolicamente è l’annullamento della distanza tra i due.
Riunione dello Yin e dello Yang.
Il bacio che, simbolicamente, richiama l’atto del divorare.
Da qui in poi, apparentemente, c’è una sorta di osmosi tra i due.
Wulfgar sembra uscire dalla sua aura ascetica di angelo guerriero: inizia a combattere una guerra non sua, agisce dentro la logica di dominio di Dekken, si muove con i suoi eserciti. E’ meno oscuro, rinuncia in parte alla sua aura extra-terrena: più umano forse, meno etico.
Nel contempo Dekken inizia a sembrare meno l’algido e asessuato guerriero, il paladino del potere assoluto del primo romanzo e di buona parte di questo. Fa persino un po’ tenerezza, Dekken, altro che furia: Alessandro Colonna se ne va, i presunti amici lo tradiscono, gli alleati diventano gli avversari, avrebbe tutti gli elementi per comprendere eventi e persone eppure sembra accecato da una caparbia ottusità.
Vuole avere il controllo su tutto (snervante sciocco desiderio deliziosamente maschile), e alla fine è il tutto che controlla lui.
Alla fine sembra proprio il re nudo, un rancoroso adolescente troppo cresciuto e infuriato che medita e mugugna il delirio di divenire l’Imperatore/Dio del mondo: figura peraltro molto in linea con il profilo dei dittatori di ogni storia, gente con un senso di inadeguatezza talmente profondo che solo il delirio di morte e di potere cerca di colmare.
Se non governassero nazioni, si potrebbe persino ridere di loro.
Nel contesto di un libro di grandissimo respiro e altrettanta complessità (di ambientazione storica, di caratterizzazione dei personaggi, sviluppo dei piani della trama), l’aspetto relazionale tra i personaggi maschili e quelli femminili può lasciare qualche invece perplessità.
C’è sempre una barriera tra che pare separarli.
Un abito monastico, la fama di eresia, la ragnatela di cicatrici e tatuaggi, l’omosessualità. L’universo maschile e quello femminile sembrano separati da barriere che suonano un po’ come una scusa per l’impossibilità – o la non volontà – di stabilire un canale di comunicazione.
Non è un bel mondo, quello che si vede in questo momento della storia: certo, manca ancora il capitolo conclusivo, ma qui ed ora è soffocante la sensazione di impossibilità di una tregua nella solitudine che vivono i protagonisti.
I primi capitoli dedicati alla ricostruzione storica – estremamente accurata e sicuramente funzionale – possono essere un po’ ostici proprio in virtù della loro precisione. Le ricostruzioni, gli aspetti tecnici, i dettagli strategici e militari, colpiscono l’intelletto, meno il livello emozionale.
Emozionalmente invece colpisce, come elemento di modernità, la quasi assenza di persone in questo secondo capitolo della trilogia. A parte i personaggi principali, questo è un libro fatto da eserciti, capitani, cavalli, spie e gente di potere.
I massacri, le devastazioni, gli stupri etnici, le carestie non sono altro che effetti collaterali di una guerra professionale protratta all’estremo limite e dilatata all’estremo tempo: forse perché, se gli si toglie la guerra, questi soggetti non hanno altra identità (umana e professionale): il tempo di pace richiede coraggio. Ciò che li muove non è la conquista per le terre, per il saccheggio, per il denaro, è la guerra per quanto di più immateriale e potente si possa mettere in campo: la superiorità di razza, dio, il potere.
Tutti argomenti che non hanno scadenza.
Fonti di motivazioni rinnovabili. E plasmabili.
Molto contemporaneo il concetto di guerra eterna, il got mitt uns di tutto il ventesimo secolo, guerra di mercenari e informatori. E banchieri, of course.
Germania, Cecenia, Kosovo, Iraq: differenze? Climatiche.
Un elemento marginale sicuramente, ma anche disturbante, è la quantità di cavalli che si muovono – e muoiono – sul palcoscenico di guerra: colpisce allo stomaco questo rantolare e spezzare di zampe.
L’iconografia ha abituato a vivere i cavalli come una sorta di “prolungamento dell’eroe”: hanno nobiltà, bellezza, potenza e vederli morire – vederli immolati nella guerra - è come veder morire simbolicamente una parte di tutto questo. Quando, per esempio, Alessandro Colonna si vede costretto a uccidere il suo stallone ungherese improvvisamente non è più il nobile Principe, è un disgraziato solo allo stremo delle forze, come se con il cavallo avesse ucciso simbolicamente una parte della sua nobiltà e umanità. Come una perdita di innocenza.
Dal punto di vista della costruzione, Alessandro Colonna è forse il personaggio più completo di questo secondo capitolo: c’è tutta la sua evoluzione, la sua angoscia contemporanea, il suo spogliarsi di tutto per rimanere con l’essenziale. E’ anche in un certo senso il personaggio più politico, nel senso che agisce con un’ottica da governante e non da dominatore: Alessandro ha consapevolezza, ragiona di valori e non solo di potere, contestualizza le sue azioni in un quadro collettivo e non solo in riferimento al suo tornaconto individuale. E’ anche qualcuno cerca il ragionevole compromesso tra etica e pragmatica, cosa niente affatto scontata: il romanzo fa risaltare gli improbabili equilibrismi dogmatici di uno stato pontificio capace di usare al meglio la formidabile macchina da guerra della comunicazione e dell’informazione.
Sulla tecnica della spada si è già potuto leggere l’ottimo pezzo di Stefano Di Marino (vedi rubriche/3122), che con grande passione e conoscenza ha offerto una chiave di lettura affascinante.
Sicuramente la contrapposizione tra la concezione orientale e quella occidentale è la radice sotterranea del romanzo, contrapposizione di due visioni etiche differenti che si contrappongono simbolicamente nel duello.
Se non si ha conoscenza della via della spada, si può tentare un approccio cinematografico alle scene di combattimento: l’esattezza della delle descrizioni crea un’immagine in chi legge. La scelta della parola, che per sua natura ha colore, ritmo, “anima, permette di ricavare un’immagine minimalista o barocca della scena, e di conseguenza intuire l’armonia, la geometria che sta alla base del movimento.
Certo, la conoscenza delle tecniche aggiunge l’elemento di consapevolezza: è però come vedere la rappresentazione di un frattale, non è indispensabile comprendere il calcolo matematico per cogliere l’equilibrio che ne deriva, e la sua bellezza.
In entrambe i casi – la via della spada e la rappresentazione geometrica -, nulla è più complesso della semplicità.
E nulla più della semplicità si avvicina al vuoto.
Il secondo capitolo di Magdeburg si chiude con l’avvio di un nuovo mutamento cromatico: il gelo e il biancore innevato della prima parte si declina nell’apertura alla primavera ed alle piogge. Certo, sarà da vedere se il prossimo colore sarà il verde della rinascita o il marrone del fango.
Ma questa è già la prossima storia.
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