Sunwoo, manager di un albergo, è in realtà il braccio destro di Kang, un potente boss della mala. Quest’ultimo, in procinto di partire per Shangai, ordina a Sunwoo di sorvegliare Heesoo, la giovane della quale si è invaghito. Quando Sunwoo la scopre in compagnia di un altro uomo, non ha il coraggio di ucciderlo.
Saputo l’accaduto Kang ordina di eliminare Sunwoo…
Se rimaniamo alla storia, per certi versi banale e comunque già sentita, si va in stallo, non si cava un ragno dal buco (o un film da IMDB…). Eppure, è questa è una fortuna, esistono film che funzionano in modo terribilmente convincente al di là della trama nuda e cruda; Bittersweet Life di Kim Jee-woon è uno di questi.
La sua qualità è quella di sapere ottenere da subito la più totale adesione in termini di partecipazione. Pare, da quello che è dato di capire, che ciò avvenga attraverso il rispetto di una regola quanto mai semplice da definire ma che si immagina tutt’altro che semplice da rispettare. La regola, tra l’altro scomponibile in due fasi, è la seguente: riuscire a trasmettere in modo costante lungo tutto il film la sensazione che ogni personaggio, dal primo all’ultimo, conduca la sua esistenza in una situazione di precario equilibrio. In altri termini, viene fatto in modo che si percepisca chiaramente come ognuno di essi si trovi in ogni istante nelle immediate vicinanze di un precipizio e che basti un nulla perché vi precipiti dentro.
Questa è la prima fase.
La seconda fase, una volta che i personaggi (e secondariamente gli eventi) hanno iniziato a precipitare, consiste nel non arrestarne la caduta, piuttosto nel fare in modo che precipitino ancora di più, aggiungendo ad una messa in scena già potente, ancora più potenza, il tutto in un universo dove la violenza, che ad un primo approccio pare funzionale solo all’incremento del body count (cadaveri insomma…) e alla quantità di sangue che scorre, si rivela invece essere, ad un approccio più profondo, il mezzo principale di comunicazione tra simili.
Detto della regola e della violenza, che per inciso non è mai resa con svolazzi o compiacimenti sadici, vanno aggiunti i generi che Bittersweet life richiama a sé, certo diversi, ma che trovano una stratificazione ed un amalgama tali da renderli limitrofi e intercomunicanti. Eppure, nonostante l’equilibrio raggiunto tra di essi è facile ed è anche un piacere assistere ai quasi impercettibili passaggi tra il noir, che certo è il primo genere che salta agli occhi, il western, per il quale occorre aspettare almeno che lo scontro tra Sunwoo e i suoi ex compagni abbia raggiunto il calor bianco, il mélo, altro tema presente anche se in forma molto nascosta tra le pieghe del racconto, ma che al tempo stesso risulta essere quello reso col virtuosismo maggiore (basta un raggio di luce che nella penombra della stanza le illumina la spalla sinistra di Heesoo colta in flagrante tradimento, per capire quali saranno per Sunwoo, da lì in avanti, le conseguenze dell’amore).
A riprova poi di come Kim Jee-woon non tema certo l’assemblaggio dei generi, ecco fare la sua comparsa anche un siparietto comico di tutto rispetto, una compravendita di armi con Sunwoo alle prese con due improbabili tirapiedi di un altro boss della mala, due sgarrupati che prima litigano prima coi finestrini dell’auto e poi fra di loro, un piccolo frammento di svago e di relax in una narrazione che non si concede pressoché pausa alcuna.
Oltre al perenne incombere della tragedia e al di là della facilità nel districarsi con i generi, per metà ricalcati e per l’altra metà trasfigurati, di Bittersweet life rimane appiccicato addosso il confronto tra due ottiche che si intrecciano di continuo, diverse e incompatibili tra di loro, vale a dire la fedeltà di ognuno verso se stessi o verso all’altro (al capo, in buona sostanza…), dove il venir meno ad una delle due comporta in automatico la disintegrazione di qualsiasi punto di riferimento.
Non rimane allora altro da fare per Sunwoo che l’andare accompagnato dal why not? di peckinpahiana memoria verso il redde rationem dove pagare e far pagare a sua volta i tradimenti reciproci che un codice quanto mai spietato impone a chi ha scelto di aderirvi.
Nell’inevitabile unhappy di Bettersweet Life, non vi è nulla di eroico (lo stile è secco, il montaggio rapido, i ralenti quasi non esistono…), meno che mai vi si ravvisa qualcosa di catartico; piuttosto il finale è di quelli beffardi (e a rischio di incomprensione se non si ha memoria dei personaggi…), perché il destino, cinico e baro, giunge puntuale a mettere la parola fine azzerando anche le ultime speranze (le ultimi immagini del film, con al centro ancora Sunwoo, sembrano suonare più come un risarcimento ritardato che come un’improvvisa botta di ottimismo…)
Bittersweet Life entra a far parte della schiera di film coreani giunti in sala qua da noi (che poi non è che ne siano passati tantissimi: Nowhere to Hide di Lee Myung-se, Oasis di Lee Chang-dong, La moglie dell’avvocato di Im Sang-soo, Ebbro di donne e di pittura di Im Kwon-taek, il memorabile trittico sulla vendetta di Park Chan-wook e poco altro…): vi entra a testa alta perché come tutti gli altri che lo hanno preceduto mostra di non avere nulla a che fare col resto dei film che circolano in sala adesso.
Come i suoi fratelli viene semplicemente da un altro pianeta.
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