Scrittori non ci s’improvvisa e il lavoro di Alan D. Altieri ne è una dimostrazione. Io, che lo conosco da diciassette anni e mi ostino a chiamarlo Sergione (o come preferisce lui il Wolf) e condivido una delle sue passioni meno note, quella per le arti marziali giapponesi, per una volta mi prendo una… vacanza dall’analisi del testo secondo criteri squisitamente letterari, per battere un altro sentiero. Come ho già detto il narratore non è solo sceneggiatore e regista dei suoi romanzi ma anche coreografo, maestro d’armi, costumista. Soprattutto per quel che riguarda il romanzo storico, materia che Sergio ha affrontato con maniacale applicazione e ottimi risultati fondendo studi e passioni personali in un’opera che - ricordiamolo - è ambientata nel 1600 ma ci parla anche della realtà di oggi e riesce a fondere un quadro storico complesso con una vicenda umana che - forse qualcuno non se n’è accorto- è fondamentalmente una storia di amore impossibile.
Ci sono due sequenze particolari in La Furia che vorrei analizzare per suggerire alcune osservazioni sul mestiere di scrittore e in particolare sulla capacità non solo di dar corpo con le parole a un’azione emozionante - tanto da sembrare filmata - ma anche di trasmettere con pochi accenni al lettore pagine e pagine di ricerca storica. È questa abilità di Sergio, senza dubbio maturata negli anni di lavoro nel cinema, che rende avvincente un romanzo ambientato in un’epoca lontana che, forse, un autore meno abile, avrebbe appesantito facendo scontare al lettore il tempo trascorso sui libri. Nella Furia, precisamente nei capitoli CXXXI e CXXXIII, assistiamo a drammatici confronti di spada tra Wulfgar l’Eretico e alcuni dei suoi avversari. È lo scontro tra Oriente e Occidente, Bene e Male, il confronto tra due scuole di scherma che permette di drammatizzare per il lettore il carattere di alcuni fondamentali personaggi, passando informazioni attraverso una serie di sequenze che “sembrano” solo azione. È questa miscela, la capacità di informare creando suspense che rivela il mestiere - e sì, diciamolo anche l’abilità letteraria - dell’autore.
Wulfgar, sappiamo, ha svolto il suo apprendistato lontano dall’Europa dilaniata dalle guerre di religione. Si è formato in Giappone, nell’epoca dei samurai. È un Mu mei, un senza nome, un Ninja, quindi un guerriero edotto non solo nell’arte della spada ma anche nel combattimento non convenzionale, non privo di risvolti esoterici.
Nel passato il samurai di poneva al centro di un certo numero di fasci di aste di legno di susino strettamente legate e inumidite con acqua. Un bersaglio che era difficilissimo tranciare senza rovinare la spada. Occorrevano potenza e precisione oltre a una lama di ottima fattura. Wulfgar usa le aste di alcune picche che, per resistenza e durezza, equivalevano ai bersagli impiegati nelle scuole giapponesi. E con una descrizione abilmente costruita con termini tecnici, immagini evocative e tagli cinematografici Altieri comunica al lettore l’abilità quasi sovrumana del suo protagonista. Wulfgar si fonde con la sua daikatana realizza quel Mu, il Vuoto che Miyamoto Musashi predicava nel Libro dei Cinque Anelli come assoluta virtù del guerriero. Non solo, al culmine della sua prova Wulfgar para un colpo diretto di spada “occidentale” Pappenheimer con un allungo all’indietro. Bastano poche parole “Collisione. Acciaio contro acciaio. Scintille schizzarono.” E già anche il lettore non esperto ha di fronte a sé la scena. Sembra facile, vero? Vi assicuro che non è così. Portare sulle pagine scritte una sequenza d’azione di spada è realmente uno dei momenti più difficili per uno scrittore d’avventura.
Ma, due capitoli dopo, Wulfgar e il suo autore ci stupiscono ancora. Questa volta non si parla di dimostrazioni ma di un duello vero. Wulfgar affronta un avversario spregevole, armato della classica Pappenheimer di cui parleremo tra poco. “Per i rettili”, dice, “si usa il bastone”.
Per la sezione riguardante l’uso delle armi bianche nell’Europa del XVII secolo, Altieri ha svolto una differente ricerca ponendo nel pugno dei suoi “cattivi” (sempre che L’Eretico sia un… buono…) la Pappenheimer e lo stocco che in alcune scuole vi veniva abbinato.
La Pappenheimer definita una lama d’acciaio di Toledo, lavorata a Dresda con fornimento di coccia ed elsa di Rotterdam era una spada a due tagli, davvero formidabile avversaria per un bokken o una daikatana. La ricerca di Altieri porta alla luce frammenti di un’altra avventura affascinante. Quella delle arti del combattimento europee. In particolare l’autore ha trovato appoggio nelle conoscenze della Sala d’Arme Achille Marozzo di Castelguelfo (Bologna) diretta da Jari Lanzoni, Massimiliano Fraulini e Luca Cesari che da anni tengono viva una tradizione nostrana che merita di essere ricordata.
Ma al di là delle ricerche conta il procedere avvincente e ritmato come un vero duello. Ve lo dice uno che di scene d’azione ne ha scritte un po’… Uno scontro di lame presenta notevoli difficoltà di resa sulla pagina quanto al cinema e potrebbe esaurirsi in un semplice scambio di “padellate” trasversali. L’uso di una lama, alla fine, è mortalmente semplice e il bravo narratore come il maestro d’armi cinematografico devono spezzare l’azione, dar conto di particolari, emozioni, dettagli per rendere tutta l’emozione di questo genere di tenzoni.
E, ancora una volta, Altieri si rivela un maestro scambiando le abituali bocche da fuoco con l’acciaio affilato. Non è un caso perché il taglio gelido e mortale della sua prosa danza tra duelli, ricostruzioni storiche e passioni roventi anche quando rimangono inespresse( che tensione i brevi incontri tra Wulfgar e madre Erika…) con la sicurezza di un narratore di razza.
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