Uno degli aspetti sicuramente più affascinanti di un festival del cinema è quello di assistere alle conferenze con i registi. Al Far East Film Festival di quest’anno, tre incontri in particolare si sono concentrati rispettivamente sul cinema cinese, su quello giapponese e sull’horror asiatico in generale. A turno, gli intervistati hanno cercato di fare il punto della situazione sulle sorti del cinema nel proprio paese, oltre che accennare alcune tematiche delle proprie opere.
Nell’incontro del 25 aprile, incentrato sulla Cina, il regista Yang Yazhou, autore di uno dei film in concorso, Loach is fish too, ha spiegato al pubblico come il modo di produrre film in Cina stia cambiando: maggiore è l’investimento dei privati nell’industria, mentre lo Stato tende a essere meno presente rispetto a prima. Ciò comporta sicuramente una minore incidenza di pressioni politiche - in Cina, ricordiamo, spesso i film vengono letteralmente “bloccati” durante le riprese, perché considerati immorali per la società e dunque suggettibili di censura - ma anche, paradossalmente, una minore libertà in termini creativi. Il privato, infatti, tende a investire su prodotti dal chiaro target commerciale, per poter trarre il maggior profitto dal film finanziato, visto come potenziale blockbuster. Nel 2005, anno in cui cadeva il centenario del cinema cinese, sono stati prodotti 260 film. In generale, nella Cina contemporanea, i film si possono dividere in tre categorie: i film considerati “ufficiali” o “positivi”, ossia le opere di propaganda politica; i blockbuster; i low-budget (come il suo), più realistici e maggiormente incentrati sulla realtà odierna del paese. La terza categoria di film, censurata in patria, viene solitamente “distribuita” nei circuiti dei festival internazionali. Yang ha specificato come, nonostante i cambiamenti abbiano favorito in parte l’industria cinematografica, ci siano ancora molti fattori che impediscono alla cinematografia cinese di decollare. Innanzitutto, soltanto la metà dei film prodotti arrivano nelle sale, e dunque al pubblico; ciò comporta che i film nazionali di successo risultano essere di numero esiguo, rendendo l’investimento di soldi nel cinema un fatto molto rischioso. Inoltre, la presenza massiccia dei serial televisivi, molto popolari presso il pubblico, allontana la gente dalle sale. Problema inoltre non secondario, il proibitivo costo del biglietto - l’equivalente di 80 dollari statunitensi! - rende ulteriormente scarse le possibilità di un vero trionfo del cinema in Cina. Vista dall’ottica di un regista, comunque, la situazione più grave è quella riguardante la distribuzione e la promozione del film, di cui sono ugualmente responsabili gli esercenti delle sale e i critici cinematografici. Yang, infine, si è soffermato sul fatto che in Cina mancano delle figure autorevoli nell’ambito della critica cinematografica, capaci di consigliare ed eventualmente guidare il pubblico sulle scelte da fare rispetto ai film in programmazione.
L’incontro del 26 aprile, incentrato sul Japan New Cinema, prevedeva la partecipazione di registi come Meike Mitsuru e Sato Hisayasu. Meike ha spiegato come nel 2005, in Giappone si siano prodotti 250 film, dei quali 80 a grosso budget e il resto indipendenti. Come per la Cina, anche in Giappone ci sono problemi di reperimento di fondi per realizzare le proprie opere. Sia Sato che Meike sono da tempo impegnati nel genere pink, porno soft con coiti simulati e assenza di esibizione di genitali, della durata di 60 minuti circa e a ridottissimo budget, ma le opere che hanno presentato al festival di quest’anno si discostano dall’universo a loro tradizionalmente associato: The Glamourous Life of Sachiko Hanai di Meike, pur essendo un pink, presenta infatti degli elementi politici che lo rendono un’opera insolita nella filmografia del regista; il terzo episodio di Rampo Noir, firmato da Sato, è anch’esso improntato verso uno stile più sperimentale e non necessariamente associato al pink. Il mondo pink, ci spiega Meike, è improntato sull’anarchia e forse per questo può dare a un giovane regista una maggiore creatività. Il genere pink è nato 40 anni fa e all’inizio era molto difficile entrare nell’ambiente: bisognava addirittura essere presentati da un referente o recare con sé un curriculum di tutto rispetto. Al momento, è paradossalmente il genere che permette maggiormente ai giovani talenti di esprimersi, anche attraverso sottogeneri. Il livello di sperimentazione nel pink può essere molto grande, ma se si supera il budget, i soldi rimanenti sono a carico del regista. Va da sé che la qualità dell’immagine è spesso scadente, anche se i registi ci tengono a difendere il proprio lavoro, affermando di credere fermamente in ciò che fanno.
Nella conferenza del 27 aprile, infine, dedicata all’horror asiatico, erano presenti il regista taiwanese Leste Chen, il sudcoreano Choe Equan e il filippino Rico Maria Ilarde, rispettivamente autori di The Heirloom, Voice e Beneath the Cogon, tutti film proiettati nello stesso giorno 27, denominato appunto Horror Day. La presenza di Taiwan nell’universo horror, in particolare, risulta insolita e nuova, e Chen ha ammesso di non essere particolarmente appassionato del genere, anche se ha cercato comunque di pescare elementi della tradizione cinese sui fantasmi per realizzare la sua opera d’esordio. Ilarde, autore di un ibrido fra il ganster movie, l’horror, la storia d’amore, lo splatter e la ghost story, ha dichiarato di aver consapevolmente scelto di creare un film inclassificabile, anche se l’horror rimane per lui un genere importante da cui partire, per poi sviluppare la storia in maniera del tutto inconscia verso nuove direzioni. Choe, anche lui come Chen non particolarmente attratto dall’horror, ha dichiarato di preferire il dramma adolescenziale - messo in primo piano nel suo film - rispetto al sottofondo orrorifico della storia. Dopo aver parlato delle proprie opere presenti al festival, i tre registi hanno infine fatto il punto della situazione sull’horror, soffermandosi in particolare sull’influenza della New Wave giapponese nell’immaginario collettivo e sulla possibilità che essa si sia esaurita. Per Chen, i giapponesi hanno fornito una formula quasi matematica per creare l’horror perfetto, capace di scuotere il pubblico; lui, però, ha cercato di infondere una dimensione più umana alla paura, in questo caso incarnata dalla figura del fantasma. Choe, pur riconoscendo l’influenza giapponese, rivendica giustamente l’originalità dei prodotti sud-coreani, citando con orgoglio il dato che nel 2005 il 60% dei successi al botteghino in Corea del Sud era rappresentato proprio da film coreani, molti dei quali horror. Ilarde, vero appassionato del genere, ha dichiarato infine come tutti i registi di horror, consapevolmente o inconsapevolmente, siano stati influenzati da film come Ringu, che lascerà per sempre una traccia indelebile nella mente e nella creatività dei cineasti di genere.
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID