Nel giallo svizzero si è sempre manifestata una vena di eterodossia, una feconda contaminazione tra noir e letteratura tout court, un’ansia diremmo quasi di trascendere le severe regole del genere per rappresentare la complessità caotica del reale: Dürrenmatt, Glauser, alcune cose di Frisch rappresentano a tutt’oggi alcuni tra i più originali contributi alla letteratura d’indagine europea.

Urs Richle, un giovane autore poco più che quarantenne (è nato nel 1965), a nostro avviso però tenta un’impresa fin troppo ambiziosa: un noir basato su un delitto che non c’è, un morto che non c’è, personaggi che non sono quel che appaiono in un continuo Gioco di maschere, come appunto recita il titolo italiano, questa volta assai più rivelatore che non quello originale: L’autista bianco.

Siamo in Svizzera, in una località imprecisata, probabilmente vicino a Ginevra, e i protagonisti sono un trio di persone apparentemente anonime: Harry e Karl, amici, impiegati di banca, e Trix, fidanzata di Karl e, dopo la scomparsa di questi, passata tra le braccia dell’altro.

Harry, persa la protezione del padre, viene licenziato dalla banca e cerca una nuova occupazione: qui rivela una certa maniacalità nel costruire fantastici curricula vitae e la situazione con la sua donna, Liliane, si deteriora in modo graduale e definitivo.

Finalmente diventa autista di un misterioso signore, Herr Herrsberg, che lui non vede mai, ma che, documenti alla mano, esiste. E qui prende il via la storia che è impossibile narrare anche per sommi capi senza  rischiare di rivelare troppo al lettore incuriosito.

Ma sembra quasi evidente che il punto di riferimento di Richle sia, attraverso Dürrenmatt, il Pirandello di Il fu Mattia Pascal: l’identità cartacea opposta a quella reale; la vita e la forma che si contrappongono drammaticamente per cui ciò che è non esiste per gli altri e viceversa; l’estremo grigiore dell’esistenza quotidiana vivificata dal rigeneratore soffio di follia che si esplica nella costruzione di un’identità fittizia. Ma la carne al fuoco è troppa: già verso la metà del romanzo la suspense cede quando si scopre l’identità dell’io narrante e il finale si rivela da un lato realisticamente amaro (nella linea appunto di Dürrenmatt), ma dall’altro un po’ deludente sotto il profilo della soluzione tecnica dell’intreccio.

Una volta tanto occorre elogiare il coraggio del Giallo Mondadori che ha ospitato nella sua gloriosa ma classicissima collana un romanzo veramente eterodosso, rischiando molto nell’impatto col pubblico: eppure solo in questo modo, pur rimanendo inalterati a nostro avviso i difetti del romanzo ai quali abbiamo accennato, si poteva cercare di aprire ad un pubblico meno specializzato, più sensibile insomma anche a suggestioni letterarie.

L’esperimento non deve essere riuscito e Richle non è più ricomparso non solo in questa collana mondadoriana, ma neppure in altre case editrici italiane.

Un’imperdonabile svista degli editor o una consapevole e miope esclusione?

 

Voto: 6.5