A volte, girare un film può costituire un aperto atto d’amore per un’opera che ha segnato nel profondo la mente del regista. Qualcosa del genere è sicuramente capitato all’inglese Terry Gilliam quando, nel 1995, ha accettato di dar vita e corpo a Twelve Monkeys, con un’idea che gli sceneggiatori David e Janet Peoples hanno esplicitamente ripreso da un capolavoro degli anni ’60: trattasi di La Jetée (1962), del francese Chris Marker.
L’idea cardine di entrambi i film - la coincidenza del ricordo chiave dell’infanzia con il momento della propria morte, reso reale attraverso un salto temporale dal futuro nel passato - viene sviscerata in Marker in termini metafisici e a budget ridottissimo, mentre Gilliam, forte di una produzione hollywoodiana, sviluppa le premesse insite nel suo predecessore per innestarle in una pellicola a detta di molti “inferiore” rispetto alla sua fonte, ma comunque carica di un fascino visionario, come spesso accade negli universi apocalittici creati dall’ex Monty Python.
La Jetée (tradizionalmente tradotto come "molo", anche se sarebbe più corretto dire "pista d’atterraggio", visto il setting aeroportuale in cui si situa il ricordo chiave del protagonista) è un film sui generis, a cominciare dalla sua definizione, incapsulata nei titoli di testa: “fotoromanzo” è infatti il termine volto a designare l’opera, che subito colpisce per la sua struttura insolita. In 28 minuti circa di narrazione, singole foto in bianco e nero passano sullo schermo in un montaggio che le tiene insieme grazie a dissolvenze e tagli netti. Una voce fuori campo (Jean Negroni) ci narra in francese la storia a cui assistiamo, mentre alcuni bisbigli in tedesco, battiti cardiaci e musiche inquietanti lasciano suggerire la sofferenza raggelata e quasi trattenuta nelle immagini immobili. Il film si apre su una scena che rappresenterà il ricordo primario del protagonista, nonché la sequenza cardine dell’intero film e del suo significato: sulla pista d’atterraggio dell’aeroporto di Orly, dove tutte le domeniche i genitori lo portavano per vedere gli aerei, poco tempo prima dello scoppio della Terza Guerra Mondiale un bambino vede il volto sorridente di una donna, e poi improvvisamente tutto mutare, nella confusione di una tragedia che rimane al momento ancora vaga e da ricostruire, anche se resta indelebile nella memoria l’immagine finale di un uomo morto a terra.
Questo il frammento del sé perduto a cui aggrapparsi, per non cedere alla sofferenza del presente: finita la Terza Guerra Mondiale, con il mondo in superficie ridotto a mera scoria radioattiva priva di risorse e viveri, i superstiti vivono in un ambiente cavernoso sotterraneo. Qui, i vincitori della guerra decidono di condurre degli esperimenti sui vinti, per poter permettere ai sopravvissuti di trovare una soluzione alla crisi alimentare ed energetica: essendo lo spazio ormai distrutto e impossibile da sfruttare, l’unica risorsa disponibile su cui compiere delle ricerche è il tempo. Occorre trovare dei possibili “emissari” da inviare nel passato e nel futuro per poter recuperare viveri e fonti energetiche, e dunque permettere all’umanità del presente di ricominciare a vivere e a prosperare.
All’inizio, gli esperimenti non conducono a nulla se non alla pazzia o alla morte delle cavie, ma un giorno “l’uomo di cui narriamo la storia”, l’anonimo protagonista del film (Davos Hanich), viene prescelto come candidato ideale per via della forte immagine ancorata nella sua memoria. Gli scienziati sono convinti che, per via della persistenza di tale immagine, l’uomo possa essere in grado di ritenere delle informazioni preziose provenienti da altre sequenze temporali, senza subire danni cerebrali. Così, per più di cinquanta volte, l’uomo viene spedito nel passato, dalla donna il cui volto è vivido nel suo ricordo personale. Questa donna (Hélène Châtelain), che lentamente accetta le visite di questo fantasma arrivato da lontano, incarna il tempo interiore del protagonista, un tempo modulato sulle onde della coscienza - il puro presente dell’attimo immobile vissuto con la donna ogni volta che torna a visitarla - e su quelle più sottili e nascoste del subconscio - l’istante del passato continuamente implorato e rievocato per sfuggire alla sofferenza dell’oblio che è Tempo, e dunque ricordo che fugge. Fra i due si crea un legame al di fuori del tempo che è paradossalmente generato da una coesistenza di tempi differenti - il passato di pace della donna e il futuro apocalittico e scientifico dell’uomo - e nello stesso tempo ribaltamento della separazione fra una zona temporale e l’altra. In una scena che è a sua volta un omaggio a un film ulteriore, Vertigo di Hitchcock, l’uomo e la donna si trovano davanti a un albero, di fronte al quale lui proverà a dirle qualcosa di sé, pronunciando queste parole: “Io vengo da là”, da un punto oltre l’albero. Come a dire, da un anello temporale differente, lontano dall’adesso di noi qui insieme. Il tempo degli incontri fra l’uomo e la donna appare in definitiva come vissuto nell’altrove del sogno, in opposizione all’atrocità degli esperimenti vissuti nel presente parallelo; o almeno così sembra percepirlo la memoria dell’uomo. La dimensione metafisica del sogno viene evidenziata e resa ancor più esplicita nell’ultimo incontro fra i due, che avviene in un museo popolato da animali “senza tempo”, creature impagliate e rese eterne in un momento temporale che può finalmente rendersi presente e reale: è in questo luogo che per la prima e ultima volta, infatti, l’uomo e la donna fluttuano completamente l’uno nell’altra nell’esatto momento desiderato. Qui, il Tempo esteriore è annullato e coincide con il tempo del desiderio, che azzera ogni interferenza possibile fra passato e futuro, concentrandosi nell’eterno presente. Ma l’uomo, mera cavia nelle mani di brutali e asettici scienziati, è destinato a ben altre imprese: l’esperimento nel passato è ormai più che riuscito, occorre ora spedirlo nel futuro, per capire se è lì che può trovarsi la salvezza dell’umanità. Catapultato in questo nuovo mondo, l’uomo si ritrova così avvolto nella nube di conoscenza trascendentale delle creature del futuro, capaci non solo di ricostruire il pianeta avendo immagazzinato energia a volontà, ma anche di osservare la realtà con distacco. L’uomo, imprigionato tra le maglie del presente - a cui deve riportare una fonte di salvezza collettiva per porre fine all’esperimento - e le tentazioni del passato - luogo del desiderio ma anche della sua personale salvezza - non capisce le creature che ha di fronte: i loro sguardi sereni e pacificati, decorati da strane apparecchiature applicate al naso (simili a un terzo occhio, simbolo di illuminazione), non gli appartengono, sebbene loro riconoscano in lui una dote fuori del comune, quella sensibilità per il Tempo e per il fluire continuo e insieme diviso nel corpo e nella mente di ognuno. Poste di fronte a un loro pari, sebbene seccate dalle richieste puerili degli scienziati del passato, le creature del futuro non solo decidono di accordargli una scorta di fonti energetiche sufficiente a far ripartire il pianeta e tenere così a bada le bramosie degli aguzzini. Anche all’uomo sarà concesso qualcosa: viaggiare insieme a loro nel tempo come meglio crede. E l’uomo, per sempre intossicato dalla memoria della donna e degli aerei, chiederà di essere riportato a quella famosa domenica, per ritornare di nuovo da lei e dentro la sua infanzia, finalmente libero di vagare nella sicurezza del passato a cui riconciliarsi per sempre ricomponendone i pezzi infranti dalla guerra. Giunto nel momento più atteso, quell’istante sul punto di compiersi due volte, l’uomo scoprirà però quanto illusoria sia la salvezza promessa dai ricordi, e quanto impossibile sia sfuggire dal Tempo: uno scienziato l’ha seguito dal passato per eliminarlo in quanto testimone ormai scomodo del segreto della rinascita della vita sul pianeta, e la scena di morte finale a cui il protagonista assisterà contemporaneamente due volte - come bambino del passato nel presente e come adulto del futuro nel passato - coinciderà con il proprio assassinio.
Riflessione acuta e filosofica sulla tematica del tempo (già cara al “maestro” Andrej Tarkovskij sul quale Marker girò nel 1999 il documentario Una giornata di Andrej Tarkovskij), La Jetée ci mostra un universo statico in cui l’unico atto di movimento reale - la corsa finale dell’uomo, nel suo tentativo di scampare al destino - costituisce un tentativo di azione di fuga dal Tempo. È come se l’uomo volesse rompere le maglie del Tempo per trovare “l’anello che non tiene” di montaliana memoria, lo squarcio che permetta al tempo di fermarsi e di non sovrapporsi: in una parola, di annullarsi in un unico, singolo fotogramma che racchiuda in sé la verità ultima. Se è vero che “non si può scappare dal Tempo”, il film dimostra anche come, in fondo, il Tempo sia insieme una bolla interiore di pura e immobile estasi presente e un’illusione di “prossimità senza reciprocità” (Ackbar Abbas - Hong Kong. Culture and the Politics of Disappearance. Hong Kong University Press, 1997) con la nostra identità, anch’essa fatta di fotogrammi isolati - o ricordi - disposti come schegge di un mosaico sulla superficie della memoria. La ricerca compiuta dall’uomo è volta a dipanare le fila del segreto della propria infanzia, un segreto che alla fine si scoprirà essere anche l’immagine dell’istante in cui desiderio e morte coincidono. Per tutta la durata del film, il montaggio tenta di colmare le falle della memoria, vivida nei brandelli d’immagine, ma sfuocata nel ricomporre l’immagine nella sua interezza. Nei suoi tagli netti e dissolvenze da diaporama, il montaggio mette a nudo l’evanescenza del nostro io segreto, quel sé illusoriamente costituito da un’individualità riconducibile a un unico singolo momento rimasto indelebile nella memoria, quell’unico fotogramma capace di renderci reali e tangibili rispetto a un presente apocalittico e a un futuro inconoscibile. Ma il tempo, come la memoria, è fatto di atomi, sospesi e insieme continui, che coesistono fra passato, presente e futuro. Il Tempo è coscienza autonoma dagli eventi e al di sopra di essi.
Nel suo anelare alla sospensione del flusso temporale, l’opera di Marker si manifesta anche come scomposizione del film in quanto forma, eclissandone il movimento in fotogrammi accostati grazie all’effetto dilatante (e dilaniante) del bianco e nero, in cui le immagini cadono come brandelli o macchie di luce in porte spalancate verso l’oscurità - quasi una prefigurazione della lotta dell’istante di vita (come) ricordo nell’inesorabile moto perpetuo del tempo che è morte e insieme liberazione dal tempo, nirvana, vuoto, assenza di sé. Allora, se l’Albero del Tempo è davvero strutturato su una serie di anelli circolari la cui continuità non è visibile, per via del nostro essere “imprigionati in uno degli anelli del tronco” (Massimo Leone - Alberi e déjà vu. Cerchi del tempo e cortocircuiti della memoria, www.golemindispensabile.it), rivivere due volte lo stesso istante del passato nel passato stesso, reso presente dal futuro, genera una paradossale permeabilità dei ricordi tra una fascia temporale e l’altra, e finisce per dissolverli nell’atto stesso di concretizzarli in un’azione, che in questo caso coincide con la morte.
Di tutta quest’impalpabile sospensione della vita nel non detto e nella rievocazione degli eventi attraverso una voce off, cosa rimane nella pellicola di Terry Gilliam, debitrice fin dai titoli di testa della lezione di Marker (tra le varie scritte, figura infatti la dicitura “ispirato al film La Jetée di Chris Marker”)? La sequenza del ricordo d’infanzia, centrale in entrambe le opere, in Twelve Monkeys subisce un’elaborazione che ne rende di volta in volta più chiari i contorni, i particolari, perfino le sensazioni vissute da tutti gli agenti presenti sulla scena - in questo caso, oltre al bambino, alla donna e all’uomo che muore, c’è anche un altro uomo che scappa con una valigetta in mano. A differenza di Marker, Gilliam sceglie di porre in primo piano il volto del bambino, piuttosto che quello della donna: gli occhi del bambino in particolare, col loro tono plumbeo e amaro che quasi ricorda le tinte incerte della vita sotterranea a venire, contemporaneamente aprono e chiudono il film ribadendone la struttura circolare e ponendo l’accento, più che sulla memoria e sulla sua capacità di azzerare il flusso temporale a favore dell’istante isolato, sull’atto del vedere - e dunque, metaforicamente, sulla fruizione dell’opera cinematografica. In Gilliam, il bambino diventa una sorta di cifra simbolica, un archetipo dello spettatore che assiste, ignaro dello sviluppo della trama, al dispiegarsi dei tragici eventi. L’accento, dunque, non è più posto sul frammento di ricordo come possibile ancora di salvezza a cui tornare per raggiungere la pace, ma sull’atto del vedere - il ricordo, e, su scala maggiore, il film. Tutta l’opera è un vero e proprio flusso di immagini immesse nell’occhio dello spettatore che, come quel bambino ignaro del disastro che si compie davanti a lui, ha il compito di tessere le fila del discorso e di ricomporle in un gomitolo compatto di senso. Il bambino siamo noi, insomma, e quello sguardo che fa da cornice a tutto il resto, fungendo da apertura e da chiusura per le altre immagini, è anche un gesto di comprimere il tempo in una massa unica e coerente, al di là dei brandelli vaganti nel caos della memoria. A suo modo, anche in Gilliam è il Tempo a trionfare, anche se la materia posta in mezzo all’immagine centrale degli occhi differisce di molto rispetto alla scarna e metafisica evocazione dell’apocalisse messa a punto da Marker.
Da sempre affascinato dalle visioni apocalittiche sul futuro - si pensi a Brazil, sicuramente il film migliore del regista - Gilliam ci presenta un protagonista (Bruce Willis) questa volta dotato di un nome - James Cole - alle prese con diverse dimensioni temporali, anch’esse collocate precisamente sull’asse cronologico: il presente del 2035 (che è anche futuro) e vari momenti del passato - 1990, 1996, e perfino il 1917 della Prima Guerra Mondiale, in cui Cole si ritrova per un errore di calcolo degli scienziati. Anche la tragedia in cui l’umanità del “futuro” versa viene qui delineata con dovizia di particolari: fra il dicembre del 1996 e la fine del 1997, un virus letale ha ucciso 5 miliardi di esseri umani, restituendo il pianeta in superficie agli animali e costringendo i pochi sopravvissuti a rifugiarsi sottoterra. Prigioniero con precendenti di violenza e vandalismo, Cole è come molti un “volontario” per una serie di esperimenti tramite i quali i dottori intendono inviare degli emissari nel 1996 per poter raccogliere informazioni sulla diffusione del virus e, se si è abbastanza fortunati, isolarne la versione allo stato puro per trovare una cura che permetta all’umanità di ritornare a vivere liberamente. Dalle poche informazioni conservate del passato, gli scienziati sono convinti che un misterioso gruppo chiamato “L’Esercito delle Dodici Scimmie” (da cui il titolo del film) sia responsabile della diffusione del virus. Scelto per la sua forza fisica - e non più, come l’anonimo eroe di Marker, per le sue forti immagini mentali, qui relegate nel subconscio privato della mente - Cole viene spedito erroneamente nel 1990. Qui, rinchiuso in un ospedale psichiatrico, ha modo di conoscere la psichiatra Kathryn Railly (Madeleine Stowe) e lo psicotico Jeffrey Goines (Brad Pitt). La sequenza in manicomio, girata in grandangolo e con frequenti primissimi piani sul viso sconvolto di Cole, è uno dei marchi inconfondibili del cinema di Gilliam, caratterizzato dall’improvvisa incursione del grottesco e del mostruoso nella vita di tutti i giorni. Anche in questo film come in Brazil, l’effetto deformante della dicotomia sani-malati e il senso incombente della decadenza della razza umana giocano un ruolo preponderante, soprattutto grazie alla presenza degli altri due personaggi, che si rivelano essere molto più che incontri casuali avvenuti nell’anno sbagliato. Per poter agire sulla scoperta del virus, infatti, Cole deve essere spedito nel novembre del 1996, non nel 1990: ecco che infatti un nuovo incontro con Railly e Goines sei anni dopo renderà ogni particolare più chiaro. Goines, ormai dimesso dall’ospedale, non solo si rivela essere figlio di un importante virologo (Christopher Plummer), ma anche un cospiratore sotterraneo: le Dodici Scimmie sembrano infatti ricondurre proprio a lui, anche se alla fine scopriremo che il virus verrà diffuso in altri modi e da tutt’altra persona. Nonostante l’organizzazione segreta di Goines dia spunto per il titolo del film, la parte riguardante la presunta lotta contro il sistema - in cui Pitt dovrebbe figurare come l’equivalente di De Niro in Brazil - è la meno convincente e forse anche un po’ banale, anche se nei panni di Goines Pitt ci regala senza dubbio una delle sue poche interpretazioni memorabili (forse perché non affidata alla sua consueta aria da belloccio).
Dal canto suo, Railly, inizialmente scettica sulle parole di Cole, comincia a credergli, tanto che alla terza visita dell’uomo, la situazione si ribalta: mentre lui è ormai convinto di essere malato, a causa dei numerosi sbalzi temporali fra un’epoca e l’altra, è lei a credere alla minaccia arrivata dal futuro. Cole, sempre più legato al ricordo di questa donna che riconosce essere la visione dei suoi sogni, non solo vuole rimanere in quello che ormai considera il suo presente - il 1996 - ma desidera più ogni altra cosa diventare una persona completa, senza più combattere con divergenze temporali o preveggenze à la Cassandra. Ormai inseguiti dalla polizia, per volontà della donna i due si travestono e decidono di fuggire verso l’oceano. Ed è qui, nella decisione di Railly di rifugiarsi in un cinema per travestirsi nell’oscurità, che Gilliam ci pone di fronte all’asse del Tempo e alle sue oscillazioni schizofreniche. Sullo schermo della sala dove Cole e Railly si trovano, scorrono alcune immagini tratte da Vertigo di Hitchcock, ed è proprio la sequenza dell’albero (già omaggiata da Marker) ad apparire davanti ai nostri occhi - e a quelli confusi di Cole - mentre Railly gli applica i baffi e la parrucca. In Marker, l’uomo diceva alla donna di provenire “da lì” indicando l’albero, ribaltando così i ruoli rispetto al film di Hitchcock; in Twelve Monkeys, la confusione (vera) di Cole fa il verso a quella (finta) della Madeleine hitchcockiana, entrambi presi nelle maglie di una vita vissuta a metà perché letteralmente “spezzata” dal tempo.
L’omaggio doppio a Hitchcock e a Marker è preludio alla sequenza finale, che altro non è se non il sogno di Cole. Tutti gli agenti del sogno vengono a confluire nell’aeroporto: il bambino (il Cole del passato), la donna (Railly), l’uomo (il Cole del presente), e, naturalmente, il diffusore del virus (David Morse). Tutto finirà in tragedia, come in Marker, ma una dottoressa del 2035 è già seduta sull’aereo a fianco del virologo - segno che, nonostante l’aeroporto di Philadelphia sia già stato contaminato, il futuro cercherà di catturare una porzione del passato per salvare il presente.
Mostruosamente più lungo della sua fonte d’ispirazione (124 minuti contro i 28 del fotomontaggio di Marker), Twelve Monkeys stempera sicuramente molta della fascinazione legata alla riflessione sul Tempo e sulla memoria, aggiungendovi delle trame parallele - l’invenzione del virus apocalittico, la cospirazione animalista, il grottesco apparato scientifico del 2035 - che vanno sì ad arricchire l’intelaiatura del film, rendendolo più appettibile per il pubblico, banalizzandone però a volte le premesse. Come in ogni film di Gilliam, ciò che più rimane alla mente è il gusto per il grottesco e per la deformazione, come se la razza umana sia di per sé marcia e decaduta ancor prima di qualsiasi minaccia esterna. A detta dello stesso regista, il personaggio più vivo e indelebile dell’opera è proprio quel Jeffrey Goines che, in quanto rappresentazione di una follia conclamata (rispetto a quella più lenta a emergere di Cole), incarna il tema da sempre caro a Gilliam: la Follia come possibile punto di fuga dal sistema - sia esso dati dal binarismo passato-presente che dalla dicotomia consumatore passivo/guerrigliero attivo. Partendo dalla riflessione sul tempo esplorata da Marker, Gilliam finsice dunque per tornare sui suoi passi, proseguendo un discorso personale sul cinema come possibile Altrove in cui rifugiare lo sguardo.
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