Gioca alto il Due volte lei (in concorso al 58mo Festivale di Cannes.) di Dominik Moll, ma un po’ mal gliene incoglie. Già. La storia è una di quelle care al cinema di Lynch (vedi Strade Perdute e Mulholland Drive), che consiste nell’infilare l’uno dentro l’altro due mondi agli antipodi e stare a vedere l’effetto che fa. I due mondi sono quelli “soliti”: da un lato la razionalità tecno-scientifica incarnata in Alain, ingegnere di robo-domestica nonché esperto, a vedere il frutto del suo lavoro, in dispositivi capaci di regalare qualcosa di molto prossimo all’onnipotenza visiva grazie a una web-cam volante capace di perlustrare in lungo e largo qualsivoglia spazio. Dall’altro un altro mondo fatto di caratteri caratteriali (Alice Pollock, in rotta col marito nonché capo di Alain) e animali che compaiono dove non ci aspetterebbe di trovarli (il lemming del titolo, un piccolo roditore simile a un criceto che pur vivendo nelle tundre scandinave fa la sua comparsa nel tubo di scarico di un lavandino francese, quello della cucina di Alain e di sua moglie Benedicte).

 

Quando il secondo mondo inizia a manifestarsi nel primo, le conseguenze per gli abitanti di quest’ultimo non tardano a manifestarsi, così che tutto inizia ad apparire inquietante e bizzarro, in definitiva inspiegabile (se così non fosse la forza stessa del racconto ne risentirebbe).

Per gran parte il film tiene saldo lo scenario razionale vs irrazionale, promettendo molto e riuscendo in parte a mantenere tali promesse, mostrandosi capace di trovare una strada propria pur attingendo a piene mani, come già accennato, ad immaginari già esplorati a fondo (a Lynch va aggiunto perlomeno il Kubrick di Shining). Eppure pian piano inizia a manifestarsi una di quelle derive non trascurabili, come se in fondo venisse meno la precisa volontà di esplorare appieno le conseguenze dell’incontro-scontro tra i due mondi.

Ci si deve allora accontentare prima del solito tradimento coniugale, poi della progressiva sistemazione di tutti gli elementi irrazionali emersi o in un contesto medico (allucinazioni) oppure semplicemente ordinario (le marachelle di un bambino).

Ma forse il difetto più grave è quello che toglie troppo presto di mezzo il vero elemento irrazionale del film, ossia una stratosferica Charlotte Rampling capace al solo apparire di gettare attorno a sé un’aura di inquietudine che gli occhi avvertono ma che la ragione non sa spiegarsi; è lei la vera presenza capace di simboleggiare tutto ciò che di inspiegabile esiste, ma come già detto la sceneggiatura la fa uscire di scena troppo presto.

Peccato…