La casa editrice Marsilio è benemerita in Italia, oltre che, naturalmente, per tutta una serie di altri motivi, quanto meno per aver offerto in questi ultimi anni nella collana “Farfalle” alcuni autori noir provenienti da tradizioni letterarie scandinave: è stato infatti grazie all’intuito dell’editore veneziano che è approdata in Italia la saga svedese di Wallander, l’eroe di Henning Mankell; e poi, sull’onda di quel successo, sono giunti gli scrittori, sempre svedesi, Persson e Larsson; ora è la volta del norvegese Kjell Ola Dahl che in patria ha raggiunto un notevole grado di notorietà con una dozzina di romanzi per lo più polizieschi di cui finora solo cinque dedicati all’ispettore capo Gunnarstranda e al suo collega Frølich: il primo uscito nel lontano 1993, l’ultimo appena l’anno scorso. In ogni caso il giudizio dei media norvegesi, riportato in terza di copertina (“il migliore scrittore di gialli letterari di tutti i tempi”), ha il classico sapore della trovata di ufficio stampa un po’ provinciale.
Perché, a giudicare da questo romanzo, il primo tradotto in Italia e che – italianamente – è solo il secondo della serie, ci troviamo di fronte a un volenteroso epigono – nel senso magari più nobile del termine – di Mankell del quale mancano però la struggente malinconia del paesaggio e gli acuti scandagli sulla vita privata dei detective.
Di loro – di quelli di Dahl – non si sa moltissimo (di Wallander potremmo anche citare la sua pressione sanguigna): l’ispettore capo Gunnarstranda è vedovo, la moglie gli è morta di cancro, trascorre il suo tempo libero a teatro o in casa a parlare a un pesce rosso che ha battezzato, con un colpo di estro linguistico, Kalfatrus; talvolta trascorre il fine settimana in una baita nei dintorni di Oslo dove lo raggiunge, per parlare di lavoro, anche il suo collaboratore Frølich che, stranamente, per tutto il libro non riceve mai una connotazione gerarchica precisa. Piccoletto, magro, stempiato con la fissa del “riporto”, fumatore incallito con attacchi di tosse preoccupanti, Gunnarstranda è un onesto poliziotto che fa il suo dovere senza lasciarsi condizionare troppo dall’ambiente e dai sentimenti; e suo perfetto complemento risulta Frølich, corpulento, single con madre invadente e con una donna, Eva-Britt, con la quale esce ma con cui fatica a stabilizzare o meglio istituzionalizzare il rapporto.
Dahl, utilizzando questi due detective in una suggestiva simbiosi (non è un caso che nel finale ciascuno si occupi di uno dei due responsabili, a vario titolo, dei delitti commessi), comincia a lavorare ai fianchi il lettore sin dalle prime battute con la costanza degna di un pugile che sa di avere la sua arma migliore nella resistenza. In questo il modello di Mankell è quasi paradigmatico: pagine e pagine sono spese per annotare minuziosamente anche gli impercettibili mutamenti del quadro complessivo, utilizzando ripetutamente i dialoghi tra i detective e gli indagati per scandagliare il cuore nero della società norvegese. Perché, in fin dei conti, ciò che più interessa a Dahl non è tanto consegnare alla polizia (e quindi al lettore) un colpevole qualsiasi; certo, lo fa, con un colpo di scena finale che riscatta il ritmo troppo lento delle pagine precedenti; ma la triste vicenda di Katrine Bratterud, tossicodipendente assassinata sulle soglie della redenzione, è un puro pretesto per radiografare impietosamente tutta una serie di storture del tanto decantato modello sociale scandinavo: comunità di recupero in cui si molestano le ospiti che poi non vengono allontanate per non perdere i finanziamenti pubblici; uomini e donne ben inseriti nella ricca borghesia norvegese, con tanto di splendide case, carriere professionali avviatissime e rubriche sui giornali; che celano sotto la dorata superficie esistenze violente e disturbate; famiglie sempre più atomizzate in cui gli assistenti sociali fanno troppo spesso le veci dei genitori mentre questi figli, nati non voluti e poi parcheggiati presso genitori adottivi, sentono ancora il richiamo del sangue: e per questo, come in una tragedia greca, muoiono. E sullo sfondo una Oslo non convenzionale nel caldo (relativo) e nella pioggia (fastidiosa) di giugno, una città ormai multietnica, davvero impossibile da distinguere dalle altre capitali europee.
Anche in Mankell il quadro generale tendeva a comprimere la detection e in più c’erano le interminabili sedute alla centrale di polizia per pianificare il lavoro; ma accanto al solitario Wallander si muoveva una serie di colleghi disegnati con mano felice nelle loro piccole gioie e pesanti infelicità quotidiane e anche il paesaggio della Scania emergeva con una sua certa forza.
In Un piccolo anello d'oro invece tutto sembra poggiato sulle spalle di Gunnarstranda e Frølich, peraltro, come detto, parzialmente caratterizzati e soprattutto sull’abilità dell’autore di lavorare di bulino nel far emergere l’immane infelicità che sembra nutrire questa società del Grande Nord.
Il risultato appare allora contraddittorio e il romanzo sembra una sorta di saggio di sociologia travestito da poliziesco: ci auguriamo che sia solo una caratteristica di questa storia, ma temiamo che quello che abbiamo definito il “corpo a corpo” tra scrittore e lettore (italiano) continuerà ancora a lungo se la Marsilio, con la sua solita cadenza annuale, ci farà conoscere all’inizio del 2007 un’altra avventura della coppia Gunnarstranda- Frølich.
Voto: 6.5
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