Ambientato nell’isola di Solina, presso Dubrovnijk, nel 1991, Il tempo dell’isola di Maristella Lippolis tesse una trama di complicità fra personaggi, ponendo come centro e insieme punto di partenza il concetto racchiuso nel titolo del libro. Tempo dell’isola è innanzitutto concepito come tempo per sé, memore di quella stanza tutta per sé tanto cara a Virginia Woolf; un tempo che è anche il moto frammentato delle relazioni, qui divise dalle esigenze parallele della lontananza e della vicinanza da un lato e dalla realtà della guerra dall’altro. La protagonista Laura, un avvocatessa che si occupa di cause di divorzio, decide di concedersi una pausa dalla propria vita recandosi per pochi giorni a Solina in solitudine e tranquillità. Complice l’atmosfera fatta di una comunicazione parallela, che avviene attraverso i rituali del cibo e della gestualità - non potendo infatti condividere la lingua con la sua padrona di casa - Laura si lascia piano piano conquistare da quella terra bellissima immersa nel mare, prolungando la sua permanenza per tutta l’estate, arrivando ad intrecciare una relazione con il figlio della donna, l’insegnante di storia Goran. Fra i due, più che un vero amore, si viene a creare una vicinanza fra corpi, che pone i due di fronte al proprio passato e al presente. Da un lato, Laura rivive le ragioni del suo smarrimento attraverso la lontananza e la distanza nell’isola, che lentamente lascia riaffiorare alcuni traumi sepolti nei recessi della memoria - il rapporto contrastato con la madre, il suicidio di una cliente, il suo fallimento come figlia, la sua solitudine, evidenziata anche da un rapporto svogliato e senz’anima con un collega. Dall’altro, Goran riflette sulle sorti del proprio paese, di cui rifiuta le ragioni del sangue, l’appartenenza etnica obbligatoria che spinge i croati a doversi differenziare, in quanto razza pura e superiore, da tutti gli altri. Una guerra che ha strappato la moglie e i figli dalle sue braccia, e che causerà forse molti altri dolori, se lui non prenderà coscientemente una posizione politica di rifiuto delle divisioni etniche, anche a costo della perdita della tranquillità. Entrambi i personaggi si incontrano in una situazione di frontiera che li rende fugaci, presenti ma tuttavia sempre pronti ad approdare verso nuovi pensieri, verso le loro vite altrove. Fra loro, la limpidezza di Vera, la madre di Goran, che rappresenta la coscienza delle cose, lo sguardo morale su ciò che accade, il punto di vista dei più deboli e delle persone comuni nei confronti della guerra subita.
Il romanzo, scandito da parti che alternano visioni in terza persona a lettere e sequenze in prima persona, trova la sua ragione di esistenza in una guerra così vicina eppure vissuta con indifferenza dagli italiani; soprattutto, il grande pregio del libro, pur essendo lontano da un approfondimento della tematica politica tout court, è quello di accennare alla crudeltà della legge del sangue, di cui i croati sono stati estremi fautori altrettanto intransigenti delle loro controparti di altra etnia (ma, forse, si è spesso tralasciato il discorso sull’appartenenza e sul sangue tipico dell’identità croata, visto il credo religioso di matrice cattolica che accomuna questo popolo a quello italiano). L’autrice stessa, membro di una conferenza tenutasi a Zagabria nel 1994 e organizzata da Beverly Allen, ha assistito ai racconti di alcune donne private di ogni strumento possibile per ricostruire una memoria tangibile della propria vita. I croati, infatti, hanno distrutto i registri anagrafici e requisito le case delle persone di etnia non pura, causando una perdita storica e culturale irrimediabile di cui è bene ricordarsi, e di cui Lippolis rende Goran portavoce attraverso la sua rabbia sulle ingiustizie in atto nel suo paese, con il sogno costante di un convivenza pacifica nel cuore. Perché, come insegna l’epigrafe tratta da Mediterraneo di Matvejevic’, “Poi diventa meno importante da dove siamo partiti e più fin dove siamo giunti: quel che si è visto e come”.
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