Gli anni ’40 sono a metà, la guerra finisce, la vita e l’economia riprendono, ma il cinema americano continua a sfornare storie cupe e disperate. Il conflitto mondiale appena terminato è stato qualcosa di inimmaginabile anche per una razza feroce e autodistruttiva come quella umana; la paura non se ne va con i festeggiamenti per la pace ritrovata, la guerra fredda è già nell’aria e diverrà presto una spessa coltre che divide menti e nazioni… I vinti, disorientati, si leccano le ferite e sognano il futuro, migliore per definizione. I vincitori, distratti dal trionfo, scopriranno a breve che la giusta lotta sostenuta e la vittoria non hanno curato i tumori che si nascondevano nel loro modo di vivere: parliamo dell’arroganza prepotente anglo-francese, dell’utopia disumanizzante sovietica, dello spietato consumismo degli Stati Uniti d’America. E a noi, qui, è quest’ultimo che interessa, perché nei tempi di cui parliamo i film noir si fanno a Hollywood…
Il 1946 è l’anno di Il grande sonno (The big sleep), ancora una storia da un romanzo di Raymond Chandler con Humprey Bogart che interpreta Philip Marlowe con la regia di Howard Hawks, consolidando la sua icona da investigatore duro, scuro e cinico, dopo aver interpretato qualche anno prima l’hammettiano Sam Spade. Altro intreccio estremamente intrecciato e poco chiaro, dove la compresione dei fatti è meno importante dell’atmosfera, luoghi e stati d’animo sono il vero meccanismo produttore di significato in questo film. Hawks riesce nell’impresa di realizzare una perfetta pellicola noir senza avvalersi degli strumenti registici e narrativi ormai più utilizzati: la fotografia e le inquadrature sono naturali, senza deviazioni espressioniste, la voce over e il flashback non vengono utilizzati, in generale la macchina da presa non interpreta mai i fatti, si limita a filmarli. Per la critica tradizionale è il vertice inarrivabile della detective story, e c’è quasi da darle ragione…
Valutiamo ora una differente figura di detective legato all’universo oscuro, un’oscurità che è quella dell’inconscio… Lo psichiatra, lo psicanalista, lo psicologo, in generale l’indagatore dei recessi mentali è presente in molta produzione cinematografica nord-americana, essendo un’elemento quasi ossessivo della società statunitense a partire dagli anni ’20. Il parallelismo tra chi mette il naso nelle sporche faccende altrui (il detective) e chi si insinua nella pericolosa zona dell’indicibile su cui si affaccia la mente di ognuno di noi (lo psico-qualcosa appunto) è alquanto evidente e il cinema, in particolare quello che ama i sottoscala dell’esistenza, non ha esitato a sfruttarlo. D’altra parte il cinema stesso è un processo d’indagine dell’inconscio collettivo (e individuale) assai vicino alla psicanalisi. Un film da citare in questo senso, tra i molti esempi che si potrebbero portare, è Lo specchio scuro (The dark mirror) di Robert Siodmak, e lo citiamo perché esce nel 1946 e, pur non avendo atmosfere propriamente noir lo si può far rientrare nel genere come opera sicuramente originale. C’è il male nascosto, c’è la ricerca della verità, c’è la misoginia per cui una donna è per natura pericolosa peccatrice e solo distruggendone la sensualità aggressiva la si può ricondurre a mite e rassicurante metà dell’universo. Ci sono molti specchi e la lotta narcisistica tra personalità dedite al bene (prodotto culturale) e al male (dotazione naturale)… è quindi, più profondamente, un film sulla realtà e sulla finzione.
Mentre i noir ben girati e strutturati secondo un canone ormai consolidato si moltiplicano, i tentativi di trovare un approccio originale non mancano. Tra questi c’è da annoverare sicuramente Una donna nel lago (The lady in the lake) del 1947, tratto ancora una volta da un romanzo di Raymond Chandler. Il regista Robert Montgomery applica qui una vecchia, e sempre riattualizzata, ossessione del cinema, quella di raccontare una storia in soggettiva assoluta. La soggettiva è, nel linguaggio cinematografico, un tipo particolare di inquadratura che, per come è girata e poi montata nella scena, rende allo spettatore la chiara sensazione di essere al posto di un personaggio (o di un dispositivo di visione), di essere i suoi occhi… Essendo il più potente mezzo di identificazione tra spettatore e personaggio, ben si capisce il fascino che esercita sui registi, soprattutto in quelle ambientazioni ricche di forti sentimenti. Detto questo, la soggettiva assoluta consiste nella sostituzione di un personaggio con la macchina da presa. Vediamo tutto ciò che quello vede e sempre dal suo punto di vista, ma non potremo mai vedere il personaggio. Siamo i suoi occhi per tutta la durata del film. Il film di Montgomery ha valore proprio per il suo azzardo tecnico-linguistico che propone da un punto di vista estremo il racconto chandleriano. Il film è di difficile fruizione per il pubblico non avvezzo al cinema sperimentale e la percezione dei fatti ne risulta inevitabilmente alterata. Alla critica non piacque e per chi pagava il biglietto rimase una bizzaria che una volta nella vita ci può stare… Tutto sommato un discreto noir di cui però Chandler, che aveva scritto la prima versione della sceneggiatura, non riconobbe la paternità.
In questi anni in cui il noir esplica tutte le sue potenzialità e diventa un filone narrativo maturo e complesso, articolato su codici e piani espressivi multipli, ormai capace di indagare i principali ambiti dell’esistenza umana, dall’organizzazione sociale all’inconscio individuale, dalla politica (naturalmente in modo indiretto, per lo più con la metafora) alla sessualità, è fisiologico che il genere cerchi (e trovi) vie di fuga dal suo corso ormai consolidato per scorrere lungo canali che portano altrove, pur senza perdere le proprie caratteristiche di base. Mentre si istituzionalizza, ricerca contemporaneamente fermenti di cambiamento e attualizzazione. Una ricerca che va nella direzione dei soggetti da narrare e dello stile con cui narrarli.
Nel 1948 vede la luce Il tempo si è fermato (The big clock), bel film claustrofobico con ritmo e inventiva dovute alle ottime doti registiche di John Farrow. Se andiamo ad analizzare il romanzo di Kenneth Fearing da cui la pellicola è tratta, L’enorme ingranaggio, constatatiamo che vi è un cambiamento significativo rispetto a quella che potrebbe sembrare solo un’altra trama nera. La dimensione psicologica non è più il recinto d’indagine di un personaggio e nemmeno la semplice identificazione con la soggettività del protagonista e con l’espediente della voce narrante, ma diventa il terreno su cui si muove tutto il racconto, tanto che giustamente qualcuno a parlato di primo grande esempio di psycothriller.
Del 1948 è anche La città nuda (The naked city) di Jules Dassin, opera che segna il trionfo dell’approccio documentaristico nel noir, mettendo al centro del film la città (New York) più che la vicenda (un omicido come tanti…). Il fatto di girare in esterni reali, per le strade e i vicoli della Grande Mela diedero risalto a una violenza delle forme e delle linee, dovuta anche alla luce diurna, molto più fisica e credibile rispetto ai virtuosismi affascinanti che venivano compiuti negli studios. Meno pensiero e più azione, ma nel segno del realismo. E il film resta un termine di paragone per il prima e il dopo del genere, tanto che molti anni dopo (1986) il grande Hal Ashby riprenderà l’incipit della voce off “Ci sono otto milioni di storie nella città nuda. Questa è una di loro” parafrasandolo per intitolare il suo bellissimo Otto milioni di modi per morire… I tempi sono cambiati e siamo a Los Angeles… ma di mezzo ci sono ancora 40 anni di grande cinema nero da raccontare...
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