E allora, esiste il noir in Italia?
Si può fare questa domanda, perché tra noi, i cinefili,
i veri fanatici, quando si parla di film noir,
sono il cinema americano e, in seconda battuta, quello
francese ad essere sul banco degli imputati.
Titoli e nomi si confondono, cozzano tra loro come
le palline dei biliardini tascabili.
Ma in Italia? Mah!
Sorrisi condiscendenti, sì, certo, a cercar bene
si trovano Germi, il primo Lattuada, Lizzani …
Ancora un piccolo sforzo!
Eh! … Petri! È tutto?
Ah! ma anche il Visconti di Ossessione,
l’Antonioni del Grido e di Cronaca di un amore,
un certo Risi, Monicelli perfino, Di Leo, Lenzi, i registi
del poliziesco-noir di denuncia, Rosi e Damiani,
per non parlare poi di Freda, Bava e Argento,
quando si sono tenuti a distanza dal soprannaturale.
E oggi? Infascelli, Salvatores, Placido...
Finalmente! Ne abbiamo di gente …
E se si considera la produzione nazionale dal dopo-
guerra ai nostri giorni, è facile constatare che il
film noir, il poliziesco-noir e la commedia nera
hanno rappresentato una percentuale considerevole del
cinema italiano. Centinaia di film, nel bene e nel male …
Michel Lebrun, Cahiers de la Cinémathèque, n. 25
(La nota, dedicata al polar francese, è stata "adattata" al cinema noir italiano)
In Italia, quando si parla di noir, si ha subito la tendenza a pensare al cinema americano, poi a quello francese; qualche cinefilo può concedere al massimo d’inserire nella lista qualche film inglese, L’occhio che uccide di Powell, per esempio, Eva di Losey o alcuni film prodotti dalla Hammer. Qualcosa di simile avveniva negli anni sessanta per l’horror. Il cinema italiano in quel periodo proponeva generalmente un horror diverso, più realistico, quindi più vicino al noir, popolato non da mostri o da esseri soprannaturali ma da personaggi reali, psichicamente e fisicamente devastati da conflitti interiori insanabili. A proposito dell’uscita italiana di I vampiri, un film del 1960 che ebbe un notevole successo in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ma non in Italia, e che dette inizio al fortunato filone del “gotico italiano”, il regista, Riccardo Freda, racconta: “Ricordo che ero presente alla prima a San Remo. Molta gente entrava nella hall del cinema e si fermava a guardare le fotografie e a leggere i nomi. Quando arrivava al mio, esclamava: "Oddio, ma allora è un film italiano!" e se ne andava. In quegli anni il genere dell’orrore non si identificava con la possibilità che fosse un italiano a farlo. Proprio per questo, per evitare la preuscita o la non entrata del pubblico, non so come meglio etichettarle, mi cambiai nome e ne assunsi uno straniero, Robert Hampton”.[1] Eppure il film noir italiano esiste e ha offerto, e continua ad offrire perfino oggi, in un periodo di così grave crisi produttiva, un ampio e variegato ventaglio di proposte. Anche grandi autori, come Visconti, Antonioni, Germi, Lattuada, Ferreri, si sono cimentati con il noir, realizzando in alcuni casi autentici capolavori.
Certamente il cinema italiano, rispetto a quello americano e al francese, ha conosciuto con ritardo questo “genere”. Se si esclude Ossessione di Visconti, i primi film noir sono della fine degli anni quaranta. L’evoluzione del cinema noir, negli Stati Uniti e in Francia, ha sempre seguito quella della letteratura poliziesca e noir. In Italia, negli anni ‘30-‘40, il fascismo era ostile a questo tipo di letteratura e tollerava solo le traduzioni di alcuni autori stranieri, pubblicate da Mondadori, a partire dal 1929: i “romanzi gialli”, dal colore della copertina. In Italia, secondo la propaganda del regime, non esistevano più né ladri né assassini né tantomeno mostri perversi (la cronaca nera era in ogni caso bandita dai giornali). In tale contesto è evidente che difficilmente si sarebbe potuto sviluppare un filone di film noir o poliziesco-noir.
Nella seconda metà degli anni trenta in Francia, nel periodo del Fronte Popolare, si affermò invece il “realismo poetico” di Carné-Prévert e di Duvivier, un cinema che esaltava la rivolta individuale, metteva in scena gli emarginati, li comprendeva, trovava loro delle giustificazioni, anche se erano stati costretti al furto o all’omicidio, e denunciava i benestanti, i padroni, gli sfruttatori di ogni tipo. Il romanticismo dello stare ai margini e della mitologia della sconfitta trionfò nei noir del “realismo poetico”, più rappresentativi (Quai des brumes e Le jour se lève di Carné, sceneggiati da Prévert e interpretati da uno strepitoso Gabin, e Pépé-le-Moko di Duvivier, sempre con Gabin). Nello stesso periodo in Italia Mastrocinque realizzava L’orologio a cucù, un poliziesco ambientato nei primi anni dell’Ottocento e interpretato da uno spaesato De Sica, nella parte dell’investigatore. Diversi film del realismo poetico furono però distribuiti in Italia e influenzarono alcuni giovani registi. Atmosfere noir, torbide e sensuali, si possono ritrovare, per esempio, in Fari nella nebbia di Franciolini, del 1942, ambientato nel mondo dei camionisti, un film che per alcuni spunti tematici e visivi anticipa Ossessione di Visconti.
Italiano, francese o americano, resta tuttavia da definire che cosa sia un film noir. Il tentativo di ricercare una definizione soddisfacente è un’impresa piena di insidie perché questo “genere” invade gli altri come un “corruttore famigerato”. Secondo Alain Corneau l’influenza del noir “è un veleno che s’infiltra dappertutto, anche nelle cittadelle apparentemente meglio protette: commedie, intimismo e drammi psicologici e, perché no, fino alle commedie da caserma”. Se le parole di Corneau hanno un qualche fondamento, allora il noir non può essere definito un genere, come ha rilevato Raymond Dorgnat. La sua definizione non si basa “su convenzioni che riguardano l’ambientazione e il conflitto, come nel caso del western e dei film di gangster, ma piuttosto su caratteristiche più sottili, come il tono e l’umore”.[2]
Su questo problema la critica cinematografica si cimenta da molto tempo senza, però, aver raggiunto una definizione soddisfacente. Non è difficile riconoscere un film noir, ma non è agevole definirlo. Che cosa possiamo dire, per esempio, del noir americano del periodo classico (1941-48), si tratta di un genere, di uno stile, di un movimento? Fu certamente uno stile, in grado di risolvere i suoi conflitti in termini visivi e non tematici ma anche le altre definizioni possono essere considerate pertinenti. Il film noir negli Stati Uniti ha operato una sintesi di almeno quattro generi: il poliziesco tradizionale basato sulla deduzione, il gangster-movie, l’horror film e il cinema fantastico. Frank Krutnik ha sostenuto che “ciò che è stato identificato come ‘stile noir’ è forse un insieme di pratiche stilistiche generate attraverso la combinazione di alcuni generi preesistenti”.[3] L’innesto su personaggi e luoghi realistici di pratiche tipiche del cinema fantastico ha avuto una significativa conseguenza: anche le situazioni più ordinarie sono diventate insolite e inquietanti, pur conservando il loro carattere realistico. I cinque aggettivi tipici del surrealismo-onirico, bizzarro, erotico, ambivalente, crudele - possono definire numerosi noir americani degli anni quaranta.
Il noir si distingue anche dal cinema di suspense classico (quello di Hitchcock) che è più interessato alla costruzione di situazioni e meccanismi narrativi diretti a stimolare un continuo senso di apprensione o di vera e propria angoscia nello spettatore e meno disposto a indagare dal di dentro le motivazioni, a soffermarsi sull’"umanità" di chi delinque. In diversi casi la distinzione è poco percettibile, anche perché, come ha ricordato lo stesso Hitchcock, la suspense è un procedimento narrativo che può essere utilizzato in ogni storia, anche nel noir, anzi soprattutto nel noir.
È stata comunque la critica francese a “inventare” il film noir, definendo con questo termine un fenomeno artistico e produttivo sviluppatosi con grande forza creativa negli Stati Uniti a partire dal 1941, l’anno in cui fu realizzato da Huston The Maltese Falcon, il "mitico" capostipite, tratto dall’omonimo romanzo di Dashiell Hammet. Con due articoli del 1946, Un nuovo genere: l’avventura criminale di Nino Frank (L’Ecran français) e Anche gli americani fanno film noir di Jean-Pierre Charter (La Révue de cinéma), inizia la “vicenda critica” non solo del noir americano, ma anche quella del noir francese e del film noir tout court. Alcuni scrittori francesi avevano però usato il termine “film noir” già alla fine degli anni trenta, riferendosi ai film realizzati durante il Fronte Popolare e ambientati nel milieu criminale urbano. Alla critica francese dobbiamo anche il termine polar (dalla fusione di policier e noir) una parola vibrante e misteriosa che definisce il poliziesco tinto di nero. Il film poliziesco non s’identifica dunque con il noir e il film noir con il poliziesco. La loro fusione, il polar, conserva diversi tratti in comune con il poliziesco classico ma se ne distingue soprattutto per il modo in cui si pone di fronte al delitto e al delinquente. Nel poliziesco gli uomini della legge sono generalmente presentati come onesti, coraggiosi e insensibili ai tentativi di corruzione, nel polar, invece, sono tutti sullo stesso piano dei criminali. Nel poliziesco il delitto è visto dal di fuori, dal punto di vista della polizia e degli investigatori, quindi in modo razionale, nel noir e nel polar viene indagato dal di dentro, dal punto di vista criminale. E alle motivazioni e alla psicologia di chi ha commesso delitti o si è comportato in modo perverso e distruttivo, viene riservata una notevole attenzione. A differenza del western e del war movie, generi basati sull’azione, o del melodramma, che si occupa di sentimenti, il noir dà grande importanza a ciò che l’uomo sogna, ai suoi pensieri e alla sua immaginazione "desiderante". Se un poliziesco classico e un polar sono messi a confronto, si vedrà che ambedue partono dagli stessi presupposti (un delitto, un detective, un colpevole) per arrivare però a risultati molto diversi: nel primo caso al trionfo della razionalità, della logica, della scientificità dell’indagine, nell’altro al riconoscimento della debolezza dell’intelletto e della volontà e delle loro incertezze, con tutte le conseguenze che ne possono derivare.
L’affermarsi del noir - romanzo e film - ha messo in crisi il poliziesco classico con la sua razionale ricerca del colpevole di stampo positivista e lo ha radicalmente trasformato: non più gioco per menti sopraffine, destinato a rassicurare alla fine lettore e spettatore con il ripristino della legalità e dell’ordine; decisa immersione invece nella mente criminale e descrizione sempre più spietata, fino al sadismo, dei meccanismi psichici che annientano l’uomo e lo spingono all’atto delittuoso, imprigionandolo in una rete vischiosa e assurda, senza nemmeno, dietro, sopra o sotto, la presenza "rassicurante" di un demiurgo negativo preposto a tirare le fila (se Dio è morto, anche Satana è deceduto).
Il noir è un fenomeno globale che non può essere limitato a un solo paese e a un solo periodo e che investe la narrativa, il cinema, la musica, la televisione, il fumetto. È come un “filo nero” che attraversa paesi ed epoche, opere, linguaggi e generi. “Un "filo nero" - ricorda Giovanni Cesareo - che sembra dipanarsi da una pratica, da una movenza dello spirito, da un modo di guardare e di sentire il mondo e gli uomini che emerge e sparisce, balena e scotta, acutamente percepibile e, insieme, inafferrabile”.[4] Il noir allude sempre alla tragedia, ma alla “tragedia della modernità”: le sue allusioni non sono mai metastoriche. Una società che “ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio”, che sta smarrendo - o ha già smarrito - il senso del giusto e dell’ingiusto non può che generare mostri, soprattutto nelle sue metropoli. Il noir rifletterebbe tale situazione: dalla sua “verità” il suo grande potere fascinatorio.
La nostra retrospettiva inizia con Ossessione di Luchino Visconti e non prende in considerazione il periodo che va dall’inizio del sonoro al 1943. In quegli anni il fascismo, sempre orientato ad attribuire all’immaginario la responsabilità dei delitti veri e concreti, aveva rifiutato con forza sia il film noir sia qualsiasi proposta di film realistico, in grado di “mettere gli uomini - gli spettatori - al cospetto della realtà così com’è”. Negli anni trenta e agli inizi dei quaranta furono realizzati in Italia un numero molto limitato di film polizieschi classici (non si trattava quindi di noir o di polar ma di “gialli”) tutti tratti da testi teatrali o romanzi italiani e rigorosamente ambientati in altri paesi o in altre epoche. L’orologio a cucù di Mastrocinque, per esempio, del 1938, già citato, si svolgeva in Italia ma nel periodo napoleonico. La pantera nera, invece, di Gambino, del 1942, era ambientato a Budapest, prediletta anche dal cinema “dei telefoni bianchi”, una città dov’era permesso ambientare storie "frivole", di adulterio e di sesso. Nel 1943 fu realizzato l’ultimo giallo dell’epoca fascista, Grattacieli di Giannini, tratto da una sua commedia omonima, interamente girato in teatro di posa e ambientato negli Stati Uniti. L’unico scopo del film era quello di mettere in ridicolo la polizia statunitense, impersonata da un commissario molto sprovveduto.
Finalmente, nello stesso anno, Visconti realizza Ossessione che è, senza dubbio, il primo vero noir italiano ed è anche considerato il precursore più "nobile" del Neorealismo. Il film chiude l’epoca del cinema fascista, ottimistico e calligrafico, e ne apre un’altra totalmente nuova, quella di un cinema molto più vicino alla realtà e alle sue tragedie. A proposito di Ossessione, in un articolo dello stesso anno, l’autore scrive: “Al cinema mi ha portato soprattutto l’impegno di raccontare storie di uomini vivi, di uomini vivi nelle cose, e non le cose stesse”. E conclude definendo il suo cinema “antropomorfico”. Un mondo, quello di Ossessione, squallido e cupo, una storia di amore e di morte (gli amanti assassini) raccontata con pessimismo e amarezza ma con grande forza espressiva. Evidente è l’influenza del realismo francese (Visconti era stato assistente di Renoir) e soprattutto quella della letteratura noir americana. Il film, infatti, s’ispira liberamente al romanzo di James Cain Il postino suona sempre due volte. Quattordici anni dopo, nel 1957, un altro dei nostri maestri, Michelangelo Antonioni, realizzerà Il grido, un’opera molto vicina a Ossessione. Il film di Visconti è espressamente citato e di continuo è interrogato come il film di riferimento.[5] Nel Grido vi è un confronto diretto, preciso con Ossessione, anche nei dettagli. Antonioni era rimasto molto colpito, quasi folgorato, da questo film sul piano tecnico. Le tracce sono numerose a cominciare dai due protagonisti, il Gino di Ossessione e l’Aldo del Grido, che sembrano quasi due fratelli gemelli. Anche alcuni passaggi fondamentali del plot sono simili: ambedue i protagonisti sono meccanici disoccupati “on the road” e arrivano in autostop a una pompa di benzina, gestita da una donna sensuale e insoddisfatta, sullo sfondo di un paesaggio nebbioso. Molto simili anche l’ambientazione padana e le atmosfere noir mutuate dal cinema francese. Come Visconti, Antonioni era stato a Parigi durante la guerra dove era diventato assistente di Carné. I due grandi cineasti italiani sono tuttavia più vicini al realismo di Renoir piuttosto che al “realismo poetico” propriamente detto. Renoir, iscritto al Partito Comunista e molto più impegnato politicamente dei suoi colleghi, mostrava in quegli anni una maggiore e più evidente preoccupazione di realismo. Per questo i suoi film di quel periodo sono stati definiti “drammi sociali”. Carné e Duvivier, invece, erano più interessati a mettere in scena atmosfere notturne e ammalianti e trascuravano i quadri puramente realistici Il loro realismo era “poetico”; come osserva Mitry, “per la trasposizione impossibile del concreto in un immaginario realista”.[6] È per tale motivo che, a proposito del film di Carné e di Duvivier degli anni trenta, si è parlato anche di “fantastico sociale” o di “realismo mentale”. Nel complesso però i due film sono più "americani" che "francesi", se si considera lo sguardo degli autori nei confronti dei personaggi. Lo sguardo dei registi francesi degli anni trenta è benevolo, pieno di simpatia autentica verso i loro personaggi, operai divenuti fuorilegge e disertori, perseguitati dal fato avverso, che si attaccano ai sogni impossibili di un amore assoluto e di una fuga verso l’"altrove". Nulla di tutto ciò in questi due film i cui protagonisti e le loro vicende, cupe e senza speranza - una “denuncia” della presenza del tragico nella vita di ogni giorno - sono osservati con distacco e freddezza di toni. E diversi sono anche i personaggi: il Gabin di Le jour se lève di Carné, per esempio, non assomiglia al Girotti di Ossessione; può anche aver ucciso ma rimane un criminale sentimentale e romantico, semplicemente un brav’uomo che ha perso la tramontana.
Una figura centrale in numerosi film noir americani e francesi è quella della dark lady, la donna ragno, la malvagia seduttrice che attira l’uomo nella sua torbida rete e ne provoca alla fine la distruzione. È questo un personaggio molto antico, presente sin dall’inizio nella cultura occidentale, in campo letterario, mitologico e religioso, da Eva in poi. L’eroina del noir, la dark lady e il suo alter ego, la donna redentrice che offre amore comprensione (la vergine, la madre, la sorella) rappresentano i due poli dell’archetipo femminile. La trasgressione principale della dark lady, a differenza della vamp degli anni venti che puntava tutto sulla seduzione, è l’ambizione, un sentimento che “non si addice” alla donna La dark lady è attiva, forte, intelligente, piena di risorse, anche se indirizza le sue qualità - spesso per ragioni misteriose - verso la distruzione del maschio e l’autodistruzione. Possiede di certo un’intensa sessualità, che è una delle sue armi principali, usata con cinismo per conquistare, asservire e poi distruggere le sue prede maschili.
Anche se in Italia, in campo letterario, la figura della malvagia seduttrice non è affatto sconosciuta, il cinema noir italiano, invece, ha raramente creato vere dark ladies. Le “signore del male” abbondano, per esempio, nella poesia simbolista italiana degli inizi del Novecento: “pantere d’amore”, “tigri lascive”, “fatte d’ombra e fatte di velluto”, “il nero fatto carne viva”, per l’alta ebbrezza e il tormento degli uomini. Due dark ladies del cinema italiano, costruite secondo il modello classico, sono senza dubbio la torbida Giovanna (Clara Calamai) di Ossessione e la splendida e inquieta Paola (una giovanissima Lucia Bosé) di Cronaca di un amore di Antonioni.
Non mancano invece nel noir italiano le femmes fatales. La dark lady, è anche, sempre, una femme fatale, ma la femme fatale non è necessariamente una dark lady; è piuttosto una seduttrice, spesso inconsapevole, che talvolta con la sua sola presenza, è in grado di modificare profondamente il destino di chi cade sotto la sua influenza, con risultati drammatici o tragici. Può, quindi, essere anche una donna “materna” e perfino una ragazza ingenua e romantica (una “vergine”) che tuttavia con la sua bellezza attrae irresistibilmente. Diventa così lo strumento di un destino infausto che, grazie a lei, può compiersi e annientare il protagonista maschile.
Nel Delitto di Giovanni Episcopo di Alberto Lattuada, uno dei primi noir italiani, tratto dal romanzo di D’Annunzio, invece della dark lady ritroviamo un dark gentleman, un affascinante avventuriero la cui nefasta influenza conduce alla rovina il protagonista.
Tra i nostri grandi autori, Pietro Germi è stato quello che, a partire dalla fine della guerra e durante tutta la sua attività registica, ha frequentato il noir con più coerenza e con più successo. Il suo esordio, Il testimone, del 1945, è già un noir che ha ben poco di neorealista e, cosa insolita per quel periodo, nel film tutto sembra essere immerso in un’atmosfera metafisica che può ricordare alcuni noir di Lang sulla colpa e sul destino fatale dei colpevoli. Gioventù perduta, del 1947, è un poliziesco noir d’ispirazione americana, mentre La città si difende, del 1951, rispetto ai precedenti, è un noir realistico alla Dassin. Tra i suoi polar, La città si difende, è il film che più si avvicina ai modelli francesi e americani. Germi scopre per la prima volta la città e la notte, due elementi portanti del “genere”. Il suo capolavoro noir resta tuttavia Un maledetto imbroglio, del 1958, ispirato liberamente a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda e definito da Germi stesso il primo poliziesco italiano. Il film è dichiaratamente infedele nei confronti di Gadda, ma vi si può riconoscere lo stesso “senso lirico della vanità e del nulla” che, secondo Pasolini, caratterizza il romanzo, la stessa “angoscia senza rimedio” di “chi, accettando le istituzioni che crede buone, è costretto a infuriarsi senza requie contro gli istituti effettivamente cattivi”.[7] Forse anche per questo, Un maledetto imbroglio piacque molto a Gadda. Germi vi interpreta, in modo magistrale, il commissario Ingravallo, un uomo d’ordine stanco e scostante, sempre con occhiali da sole e sigaretta, che certamente ha visto e amato molto i noir con Humphrey Bogart e soprattutto quelli con Jean Gabin. Nel film è già evidente un intreccio stilistico fra tragedia criminale e humour da commedia nera di costume che preannuncia le sue straordinarie black comedies delle anni sessanta.
Il western all’italiana agli inizi degli anni di settanta entra in crisi. Il pubblico rifiuta ormai un genere che, con la produzione di un gran numero di pellicole mediocri, si è andato imbastardendo sempre più. L’elemento comico è penetrato in profondità e lo “spaghetti-western” è diventato la parodia di se stesso [8]. Produttori e registi del western all’italiana, accorti artigiani del cinema popolare italiano, trasformano allora sceriffi e pistoleros in poliziotti, commissari e banditi, tutti dai modi molto, molto spicci; nasce così un nuovo filone, o meglio un nuovo genere, che la critica, un po’ troppo frettolosamente, liquiderà con una definizione piuttosto dispregiativa: il poliziottesco degli anni settanta. Di questo “genere” sono stati inseriti nella retrospettiva solo alcuni film, considerati i più rappresentativi: La Mala ordina di Fernando Di Leo (1973) che s’ispira a un racconto di Giorgio Scerbanenco, definito oggi uno dei migliori polar italiani del decennio (qualcuno ha parlato di Melville per il nichilismo di fondo, altri di “Don Siegel italiano”); Milano odia: la polizia non può sparare di Umberto Lenzi (1974), interpretato da uno scatenato Tomas Milian, un film crudele, di una violenza cupa e disturbante, che è stato oggi ampiamente rivalutato ed è considerato uno dei più riusciti del poliziottesco; Napoli violenta, sempre di Lenzi (1976) per i cultori il capolavoro del regista, il “poliziottesco nella sua forma più compiuta”; la violenza spettacolare è la vera protagonista del film e Lenzi si afferma come il principale autore del genere. In realtà questi tre film possono essere agevolmente definiti dei polar, dei polar all’italiana che, puntano, per catturare il pubblico, soprattutto sulla violenza spettacolare e rifiutano qualsiasi impegno politico e ideologico, al contrario dei polizieschi-noir di denuncia dello stesso periodo (Damiani, Petri, Rosi). Saranno seguiti negli anni settanta e, in parte, negli anni ottanta, da un numero impressionante di film di serie B-Z. Il poliziottesco diventerà così un vero genere e per questo meriterebbe un’indagine approfondita: al suo interno si celano infatti film raffinati, di ottima fattura.
Quando, a proposito del noir italiano, si parla di realismo e d’impegno, è forse utile tener presente che, in generale, dal film noir - quello italiano non fa eccezione – non ci si può attendere un rispecchiamento della realtà "così come essa è" e un discorso "politicamente corretto". Il noir, per sua natura, tende a estremizzare la realtà in cui viviamo ed è in questo modo che diventa portatore di una sua particolare forma di critica sociale. Fanno eccezione i film noir di denuncia e d'impegno civile, soprattutto quelli di Rosi, Petri e Damiani degli anni sessanta-settanta, opere dallo stile potente, spettacolare e di forte evidenza realistica. Alcuni di questi film sono stati tratti da romanzi di Sciascia, altri s'ispirano alla cronaca di quel periodo (attentati, strategie terroristiche, depistaggi) rielaborata in trame ricche di suspense, di forte impatto emotivo. L'esordio di Francesco Rosi, per esempio La sfida, fa propria la lezione del neorealismo e la fonde con quella di Kazan di Fronte del porto e del noir americano.
I film di questo filone, tipicamente italiano, al contrario di quanto avviene nel noir tradizionale, francese o americano, sono molto più attenti alla dimensione politica e sociale piuttosto che a quella individuale, come ha ricordato De Cataldo, l’autore di Romanzo criminale, in un’intervista ripresa in questo catalogo.[9] E hanno saputo presentare, con le loro denunce appassionate, un ritratto spietato ma veritiero della società italiana di quel periodo. Tuttavia anche in questi film come avviene di solito nel noir, non esistono personaggi “buoni”, totalmente “positivi”, e persino nei migliori rappresentanti dello Stato, in lotta con la criminalità (commissari, poliziotti, procuratori) vi è sempre ambiguità morale.
All’interno del vasto panorama del cinema noir italiano la commedia nera rappresenta un filone scintillante, frequentato anche da grandi autori come Germi e Ferreri.
Lo sceneggiatore Rodolfo Sonego ha definito la commedia all’italiana una “tragicommedia” in cui “il comico diviene come catalizzatore di molti mali che sono all’interno del tessuto narrativo”.[10] Se si esclude il “- neorealismo rosa”, il filone dei Poveri ma belli, la commedia all’italiana già possiede, spontaneamente, elementi noir. In alcuni casi, tuttavia, il noir, come un potente veleno, è penetrato così a fondo da mutarne la natura, da trasformarla in “commedia della cattiveria”. Divorzio all’italiana, per esempio, il capolavoro di Germi, formalmente conserva lo stile e il ritmo della commedia all’italiana; in realtà ci troviamo di fronte a un acuto violento, sarcastico “pamphlet noir” contro un certo concetto di “onore” e, al contrario delle commedie di Risi e di Monicelli, è impossibile ritrovarvi un solo personaggio positivo. Nella Donna scimmia, una delle opere più importanti di Marco Ferreri, lo humour nero dell’autore raggiunge punte estreme di cattiveria ma un personaggio positivo tuttavia esiste: l’animalità esteriore della donna scimmia nasconde vera umanità.
Gli anni duemila non sono stati teneri con il cinema italiano e la grave crisi produttiva del decennio precedente si è ulteriormente aggravata. Eppure, in questo deserto di sabbia o di ghiaccio, il noir, il neo-noir italiano, è forse l’unico “genere” o “supergenere” che è riuscito non solo a sopravvivere ma anche a dare alla luce film, molto diversi tra loro, di buono o di ottimo livello.
Come sempre con il noir, in Italia, in Francia e negli Stati Uniti, si è rivelato determinante il rapporto con la letteratura poliziesco-noir. Quo vadis baby? di Gabriele Salvatores, girato in digitale, è tratto dall’omonimo romanzo di Grazia Verasani. È stato definito “un finto noir dai molti strati”, ma è, in realtà, un noir atipico in cui la ricerca della verità da parte di una detective privata si trasforma in un percorso doloroso di autocoscienza: nella filmografia dell’autore, uno degli esiti più convincenti. Romanzo criminale - che ricostruisce l’ascesa e la caduta della banda della Magliana - è tratto dal bel romanzo omonimo di De Cataldo. Michele Placido rende omaggio al cinema italiano degli anni sessanta- settanta. Sono ben riconoscibili echi dell’epopea del fuorilegge, alla Leone di C’era una volta il west, del cinema di denuncia e d’impegno civile alla Damiani e alla Petri, e del polar italiano, alla Lenzi e alla Di Leo. La vitalità del noir, in Italia o altrove, è indiscutibile. La realtà ci offre orrori e incubi sempre nuovi: noir e neo-noir sono prodighi nell’assimilarli e nel riproporceli. La condizione umana che viene rispecchiata dal noir, l’"inferno laico" delle sue storie, fortunatamente non sono l’unica realtà possibile per l’uomo contemporaneo. Il noir cerca sempre di convincere lettori e spettatori del contrario e lo fa con strumenti molto efficaci: spesso vi riesce.
[1] Riccardo Freda, Divoratori di celluloide, Il Formichiere, 1981, p.86.
[2] Paul Schrader, Notes on Film Noir, “Film Comment”, primavera 1972, pp. 8-13.
[3] Frank Krutnik, In a Lonely Street. “Film Noir” Genre, Masculinity, Routlege, London-New York 1991, p. 22.
[4] Giovanni Cesareo, Sulle tracce di un filo nero, in Marina Fabbri, Elisa Resegotti (a cura di) I colori del nero, Ubulibri, Milano 1989, p. 15; parzialmente riproposto in questo catalogo, pp. ___
[5] cfr. Vito Zagarrio, “Il grido”. Vers les années soixante, et au delà, in Carlo di Carlo, Michelangelo Antonioni 1942/1965, Edizioni Ente Autonomo Gestione Cinema, Roma 1987, pp.318-323.
[6] Jean Mitry, Histoire du Cinéma, Jean-Pierre Delarge éditeur, Paris 1980, p. 338.
[7] Pier Paolo Pasolini, Il Pasticciaccio, in Id., Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1994, pp. 355-356. Su Un maledetto imbroglio cfr. P. Pasolini, Lo stile di Germi, in Id., I film degli altri, a cura di Tullio Kezich, Guanda, Parma 1996, pp. 17-20.
[8] Cfr. Daniele Magni, Silvio Giobbo, Cinici, infami, violenti – Guida ai film polizieschi italiani anni ’70, Bloodbuster, Milano 2005, pp. 11-17.
[9] Il lato oscuro dello schermo – Il film noir italiano, p……
[10] Rodolfo Sonego (intervista), in Pietro Pintus (a cura di), Commedia all’italiana – Parlano i protagonisti, Gangemi Editore, Roma 1985, pp. 182.
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID