Per un terzo un noir placcato politico (Giorgio Pellegrini/Boni, ex terrorista con un passato sudamericano dalla parte degli oppressi con tanto di villaggio nella giungla dove sulla capanna campeggia uno striscione rosso con una “A” al centro e quasi tutti indossano la fascia in fronte, come De Niro in Il cacciatore, e che adesso, dopo una scena a Parigi con la Eiffel in bella vista, punta alla riabilitazione in Italia).

Per un terzo noir due volte, dove i confini tra chi delinque e chi dovrebbe far rispettare la legge sono tutt’altro che netti, come hanno insegnato Friedkin e Ferrara, con tanto di cattivo tenente Anedda/Placido (in combutta col Giorgio di prima) che ne combina una dietro l’altra (e con un senso dell’umorismo niente male: "porto il cane a pisciare" dice, ma poi chi piscia è lui).

Per un terzo commedia con tanto di saltelli di gioia di fronte a un frigorifero a doppia anta (sic!) e di nuovo noir, con uxoricidio e bicchieri di latte (il rimando, ovvio, è a Il sospetto…), uxoricidio che dà vita all’agonia cinematografica più lunga degli ultimi dieci anni (rantoli, sudori freddi, occhi di fuori, strusciate sul pavimento, crocifissi, plongée e controplongée su Boni).

Un terzo più un terzo più un terzo magari non fanno l’unità, così che qualcosa per forza resta fuori, ma il problema non è quello che rimane fuori (sul quale non ci si pronunzia…), ma quello che è finito dentro questo Arrivederci amore, ciao, noir, certo, ma girato per lunghi tratti con atmosfere, luci, movimenti di macchina da film horror (da là viene Soavi, o no?).

 

Quello che c’è finito dentro basta e avanza per far assumere alla dimensione del Male, o se si preferisce alla “discesa agli inferi del protagonista”, lo spessore di una sottiletta, per via di una sceneggiatura sempre dentro le situazioni e sempre fuori dalle psicologie (certo che Alessio Boni con il suo essere attore binario, acceso fino all’isteria, spento fino all’indifferenza, non aiuta…), sceneggiatura che cerca di essere feroce scegliendo la strada più semplice, cioè quella di evocare situazioni feroci.

Il finale, che in altri casi non sarebbe passato inosservato visto che per una volta preferisce lasciare le cose come stanno, cioè non redente (e il colpevole impunito…), passa per l’appunto inosservato (il punto di vista usato da Michele Soavi per congedarsi è quello zenitale, il posto di Dio insomma…).

La soggettiva a pelo d’acqua nella giungla che più avanti si rivelerà essere lo sguardo di un alligatore morto (quindi a rigore uno sguardo impossibile…), è o non è un richiamo di Soavi all’Alligatore di Carlotto?.

Anche stavolta, come per Cacciatore di teste, si accettano scommesse…