Forse il più serio concorrente di Brokeback Mountain nella corsa alla statuetta come miglior film, anzi senza forse il più serio e temibile concorrente.
Truman Capote è svariate cose assieme. Non un biopic tout-court, giacché a essere a fuoco non è una vita intera strizzata magari nell’arco di due ore (o poco più…), ma esclusivamente la gestazione di A sangue freddo, destinato a diventare il libro più celebre di Capote e al tempo stesso anche il suo canto del cigno, visto che dopo non pubblicherà più nulla.
La genesi del romanzo che diventa film è la vivisezione dolorosissima di un processo creativo che per lunghi tratti risuona con un thriller, dove la sorte degli assassini marcia di pari passo con quella del romanzo: all’arresto dei primi corrisponde l’idea del romanzo e al processo la stesura.
Ma di scrivere la parola fine al romanzo non se ne parla, almeno fino a quando la giustizia non scriverà la sua di parola fine con l’esecuzione dei due colpevoli. Lo sguardo di Capote sui due delinquenti di mezza tacca, colpevoli dello sterminio di un’intera famiglia, è assimilabile tanto a quello di un detective che ricompone i pezzi di un puzzle che il delitto ha sparpagliato tutt’attorno, tanto a quello dell’entomologo che, euforico perché si è imbattuto nell’insetto ancora non classificato, non dimentica il sufficiente distacco dalla vicenda necessario per tradurre i vissuti in materia narrativa.
L’impressione generale che si ricava è quella di aver assistito ai mille rapporti che intercorrono tra un artista e la sua opera; in particolare a come in nome della seconda il primo sia disposto a mettere da parte qualsiasi considerazione di natura etica pur di raggiungere il proprio scopo, senza risparmiare nulla sul piano delle bugie.
Quasi impossibile non porsi delle domande sulla liceità di un agire così.
L’Oscar come migliore attore è già cosa di Philip Seymour Hoffman (e di nessun altro…).
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