A Luigi Bernardi un grande riconoscimento: quello di avere introdotto, con questo romanzo, il tema della guerra vissuta nella quotidianità di una cittadina di provincia italiana. Non è una guerra tra robot o intelligenze aliene, in paesi che, come altri mondi lontanissimi, hanno la cadenza ansa monotona e quasi rassicurante delle infinite battaglie dell’impero del Nord. Non si parla di Iraq, Israele, futuribili scenari tra Iran, Cina, Euroforce…. In Tutta quell'acqua si narra di un professore di filosofia che nell’Italia contemporanea si sveglia, va a lavorare, conosce le postazioni bancomat funzionanti, coltiva i suoi sogni e le sue speranze con il sottofondo degli allarmi, dei posti di blocco, delle scritte sui muri contro il governo, di periferie bombardate, di ospedali che continuano in qualche modo a funzionare, di zone sicure, di altre a rischio. Un risveglio in Palestina o nel Libano degli anni ’80. Bernardi ci ha catapultato nell’unico scenario davvero terrificante e possibile del prossimo futuro di cui non possiamo incolpare nessuno se non la nostra atavica propensione alla guerra. “L’uomo ha perduto il gusto del vaneggiamento, del ragionare fino a se stesso, del fantasticare… Rivolgere gli occhi al cielo, perché lo spazio infinito è l’unica misura capace di relativizzare la portata della vita sulla terra”. Magari avessimo a che fare con figure transgeniche sfuggite al controllo di qualche laboratorio. Magari. Vanni, il nostro professore di filosofia, un quasi cinquantenne che veste un po’ trasandato con qualche chilo di troppo sulla pancetta, ha adottato un principio che sfiora la vigliaccheria esistenziale: la filosofia della sottrazione. Essa consiste nel prendere le distanze dalle situazioni sgradevoli, noiose, inopportune, condizionanti, semplicemente cancellandole. “Se qualcosa non gli piaceva, ne faceva a meno: se non tollerava un ambiente, se ne andava. Se una persona lo infastidiva, smetteva di frequentarla”. Ammettiamolo, è affascinante. Certo, l’atteggiamento distaccato che inevitabilmente ne consegue può essere scambiato con uno snobismo irritante, ma ciò che nasconde questa maschera protettiva è una forte paura di perdere il controllo sulle situazioni che nella quotidianità ci vengono imposte con sufficienza incalzante. Ma siccome i nostri personaggi non li possiamo lasciare troppo a lungo nel loro limbo tranquillizzante, ecco che viene l’incontro. Vanni assiste a uno scippo. Uno scippo qualunque, praticamente banale. Due ragazzotti di provincia amanti del biliardo e con sede fissa al bar che prendono di mira una borsetta. Dietro questa borsetta c’è il racconto della grande potenza del trauma. E di una ragazza, di nome Bianca, coi capelli quasi rasati a zero, che coltivava in fondo l’illusione che la guerra avrebbe in qualche modo cambiato le cose. Pensava che se la fragilità diventa collettiva e condivisibile può diventare accettabile, e quindi superabile. Nella borsetta che il nostro professore, Vanni, riesce a recuperare seguendo gli scippatori, ci sono quegli oggetti che paiono ancora più indifesi e violati in quanto appartenuti a lei. Comuni antidolorifici, qualche ansiolitico famoso, e una busta piena di ritagli di giornale. La tentazione di descrivere passo passo questo romanzo è fortissima. Immaginate un evento sconcertante, improvviso e fisicamente sproporzionato che può coinvolgervi fino ad annullare tutte le vostre difese. Bianca, la nostra fragile Bianca, pensa che già aver superato il pudore di spogliarsi e di immergersi nel lago sia sufficiente dal preservarla da altre sgradevoli prove. Quando all’improvviso un aereo, di per sé gigantesco se visto così da vicino, sembra quasi planare sul lago e sganciare dei missili, disinnescati, che sollevano un’ondata dalle terrificanti proporzioni. E su quei ritagli ci sono le testimonianze: quel fatto è accaduto. Bianca da quel momento non potrà più godere della sensazione tonificante e languida insieme di un bagno o di una doccia profumati, quel senso di prendersi cura del proprio corpo, di uno shampoo abbondante coccolato dal balsamo, di qualsiasi cose le ricordi un’immersione. I capelli quasi rasati a zero, per non violare ancora la pelle con la violenza del liquido scrosciante, così invasivo e penetrante. Che le ricordi tutta quell’acqua. Quei ritagli di giornale porteranno Vanni ad occuparsi di Bianca: nessuno glielo ha imposto, non deve compiere nessuna sottrazione. Forse è ora di sommare, anche se “due persone a metà non ne fanno una intera”. Riuscirà ad occuparsi di lei, riuscirà ad innamorarsi e a farsi innamorare, riuscirà a scovare gli scippatori, riuscirà persino con una partita di biliardo che sfiora la descrizione magistrale di certi bar della provincia emiliana, a riscattare quantomeno la dignità del rapporto paritario tra la vittima e il suo assalitore. Riuscirà con un furto del vespone dello scippatore, del capo per intenderci, a pareggiare in qualche modo i conti. Riuscirà a sbalordirsi per una danza forsennata, sensuale e disperata, a cui assiste nelle strade desolate e vuote della guerra insieme a Bianca. Crederà di dar ragione allo psichiatra che l’ha in cura, quando parla delle tante vittime che la guerra fa spezzando le persone come farebbe una granata. E, come lo psichiatra, sa che l’affetto e la quotidiana rassicurazione possono fare miracoli. La sottrazione sta cedendo davvero a una addizione. Tutti i comportamenti decodificati sulla frequenza della distanza cedono, i sorrisi degli altri non rappresentano più una sfida alla sua incolumità ma forse, solamente un invito. Questo scenario che si preannuncia roseo verrà drasticamente stravolto da una variabile che non aveva affatto considerato. La vendetta. Le regole della malavita, anche quella spicciola, non ammettono affronti impuniti. Il furto di un vespone, in tempi di guerra poi, rappresenta uno scenario intollerabile. E se la vendetta colpisce la fragilità, se colpisce tutto quello che dovevi proteggere, può annullare davvero il senso dell’esistenza. Il finale, è realmente tragico perché si presenta quasi pudico, senza clamore. Con stanchezza i gesti si dipanano, misurati, consci e rassegnati. Tutto è andato troppo oltre per poter intravedere una via d’uscita. Nella guerra, dove tutti sembrano disperatamente consapevoli della propria precaria sopravvivenza, dove lo sforzo per trovare il cibo e l’acqua potabile prendono inevitabilmente il posto di tutte le considerazioni esistenziali, l’idea, l’affronto massimo, è infischiarsene della vita. Quando la disperazione è un continuo avanti e indietro di ambulanze, e camminare sulle proprie gambe è già la propria vittoria sulla guerra, cedere alla riflessione sul senso delle cose può rappresentare davvero una variabile inaspettata. Grande romanzo, grande introspezione psicologica del dolore.
Luigi Bernardi è nato nel 1953 a Ozzano (BO). Ha creato e diretto case editrici, riviste di collane e di fumetti. Attualmente è scrittore, giornalista, traduttore e consulente editoriale. Ha scritto alcuni libri sui rapporti fra crimine e contemporaneità, fra i quali: A sangue caldo (DeriveApprodi, 2001), Pallottole vaganti (DeriveApprodi 2002), Il male stanco (Zona 2003). Come narratore ha pubblicato tre raccolte di racconti e i primi due romanzi della trilogia di storie criminali Atlante freddo: Vittima facile (Zona, 2003) e Rosa piccola (Zona, 2004). Suoi racconti sono presenti in numerose antologie, fra cui: In fondo al nero (Mondadori, 2003), Lama e trama (Zona, 2004). Vive e lavora a Bologna, città di cui ha raccontato storie e memorie in Macchie di rosso (Zona, 2002).
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