Con inflessibile taglio documentaristico arricchito di dettagli e prediligendo il fattore umano, Steven Spielberg ricostruisce gli eventi che portarono all’eliminazione del commando “Settembre Nero” (falange dell’OLP) che compì la strage di Munich del 1972, dove persero la vita undici membri della squadra israeliana. I fatti sono suggeriti dalla testimonianza dell’ancora vivente agente “Avner” (raccolta nel romanzo di George Jonas, Vendetta), l’uomo che si occupò di gestire la missione, mai confermata ufficialmente dal governo israeliano e patrocinata dal Mossad (i servizi segreti). Errori, ragioni, pensieri e azioni di entrambe le parti in causa sono seminati con attenzione, immersi nella volontà di discostarsi dal qualunquismo e dal dogmatismo.

Il gruppo (ottima e affiatata anche la squadra di attori) formato da un costruttore di bombe, un falsario, un autista, un “uomo in nero” e un supervisore alle operazioni, setacciò per quattro anni il mondo intero alla ricerca dei terroristi autori della carneficina. Tempi morti, attese sfibranti scandite dalla routine di pedinamenti, pianificazioni e continui tentennamenti delle coscienze furono le anticamere obbligatorie per le azioni distruttive: a volte maldestre, a volte spettacolarmente realistiche.

La devota obbedienza alla causa in alcuni sarà lentamente erosa dai dubbi. Muoiono gli attentatori? Arriva il rimpiazzo. E la fine della lotta non è per niente nota. Gli assassini si raccontano come macellai dall’animo gentile ma sono pur sempre assassini. La connivenza con ambigui personaggi in affari con la morte, finirà poi col minare ogni senso di appartenenza.

Niente risposte ma un’eco di chiarezza nel disordine di un conflitto che lacera e decima due popoli ancora in asprissimo e doloroso contrasto. Nonostante i tentativi di raggiungere un accordo, paiono più capaci di dialogare con le bombe che con messaggi di pace. Come nella lunga scena di prechiusura, sciapa ed estraniante, che lascia una forte sensazione di sospensione e mancata comprensione. Bene prezioso del quale sarebbe vitale nutrirsi sempre. Alla fine invece, niente consolazione.