Batya Gur, insegnante universitaria, giornalista e scrittrice morta lo scorso maggio all’età di 58 anni, apparve sulla scena editoriale italiana nel 1993 quando uscì presso Rizzoli il primo della mezza dozzina di romanzi che ha dedicato a Michael Ohayon, detective della polizia di Gerusalemme.

L’esordio non fu certo dei più felici se si sono dovuti aspettare sette anni, e un altro editore, per veder uscire un’altra avventura del suo eroe; e se alcune indiscrezioni danno per imminente un nuovo romanzo presso la giovanissima casa editrice Nottetempo, il notevole lasso di tempo intercorso (sei anni) testimonia che anche la seconda incursione nell’affollato mondo del noir non deve avere convinto gli editor italiani.

Nonostante infatti la scrittrice vanti un ammirevole curriculum per quanto riguarda la critica (come dimostrano le numerose traduzioni all’estero, e in special modo nei paesi di lingua inglese, tradizionalmente di palato difficile), tuttavia, almeno per quel che concerne Omicidio nel kibbutz, ci troviamo di fronte a un romanzo che in gran parte delude le attese.

Narrazione assai lenta, pochi colpi di scena, eccessivo interesse per le dinamiche interne al kibbutz: realtà, quest’ultima, che se può appassionare il pubblico israeliano, o almeno quella parte che ha vissuto più a contatto con questa originale esperienza socio-economica, risulta meno appetibile a un lettore internazionale di media cultura che stenta a immedesimarsi fino in fondo nei personaggi della vicenda.

Eppure il protagonista è accattivante: il quarantenne Ohayon, separato con un figlio che presta il servizio militare nei Territori, si segnala per una vena anarchica e un’insofferenza per la disciplina di squadra che ne fanno, all’inizio, forse l’uomo meno adatto per comprendere le sottili ma penetranti trame affettive che legano tra loro i componenti del kibbutz; ma pian piano riesce a calarsi nel ruolo e lentamente scava nell’inestricabile intreccio di dissapori, invidie, rancori che sopravvivono nella comunità nonostante il radicale esperimento collettivistico antiborghese.

Ma la narrazione stenta lo stesso a decollare: lo stile è abbastanza faticoso (frequenti flash-back costringono il lettore a una ginnastica mentale, tra gli avvenimenti e la complessa onomastica ebraica, non sempre piacevole); e, come detto, lo scrupolo forse eccessivo nel delineare con dovizia di particolari lo scontro generazionale tra i pionieri e i più giovani, sensibili al fascino della società occidentalizzata delle grandi città, fa ben presto perdere di vista l’intreccio criminoso vero e proprio che ruota attorno alla morte misteriosa di Osnat Harel, matura e affascinante segretaria del kibbutz, al centro di una ragnatela di rapporti personali molto spesso vissuti sul filo del rasoio.

Interessanti viceversa i ritratti di alcune persone della comunità: le sopravvissute della Shoah come Gutta e Fania o l’insegnante Dvorka, sostenitrice intransigente dello spirito originario dei fondatori; ma intrigante è anche il personaggio di Avigail, ex infermiera ora poliziotta, infiltrata nel kibbutz, che sconta in silenzio lo stress di esperienze professionali che non le hanno dato tregua.

Nel complesso però l’autrice non dimostra, almeno in questo romanzo, di maneggiare con sapienza l’arma della suspense; il crescendo di tensione che porta nel finale ad un tentato omicidio e alla scoperta del colpevole è più dichiarato che ricreato nella mente del lettore che attende con pigrizia lo scioglimento finale.

Logico quindi chiedersi, nonostante in questa sede si sia il più possibile aperti alle scuole internazionali del giallo, se non abbia fatto poi bene l’industria editoriale italiana a centellinare le apparizioni delle avventure di Michel Ohayon.

 

Voto: 5