Il regista Jaume Collet-Serra percorre la strada del remake dirigendo questo film discendente di ben 3 omonimi predecessori, dal primo del 1933 diretto da un maestro del cinema, Michael Curtiz, fino all’italiano MDC del 1996 di Sergio Stivaletti, passando per quello forse più noto, datato 1953 e interpretato dall’indimenticato re del genere Vincent Price.

Dopo un incipit da horror adolescenziale, con il classico gruppo di amici che goliardeggia incosciente senza accorgersi che l’orrore è in agguato, il film decolla piano piano addentrandosi nella paura e mostrando uno sviluppo più serio e meno convenzionale di quanto ci si aspetti, nonché una padronanza della materia “cinema” di tutto rispetto, soprattutto per un regista appena trentenne. Ciò che infatti colpisce subito e che in buona parte “nobilita” questa pellicola è la cinefilia del regista che gioca abilmente con le citazioni senza però eccedere nella didascalia o nell’esercizio di stile; la struttura stessa del film, tipica dell’horror in stile Venerdì 13 con il campeggio, l’auto in panne e l’assassino nascosto tra gli alberi, è pura citazione, rimando ad un cinema anni ’80, a una rappresentazione della paura, e forse anche della società attraverso la paura, effettistica, vacua e forse meno superata di quanto crediamo: non a caso la figura della biondina, banale rappresentante di un erotismo voyeuristico da supermercato è affidata a Paris Hilton, attrice che, se non fosse l’interprete, ne sembrerebbe la musa ispiratrice.

La storia di La Maschera di cera tra cui fratello e sorella gemelli in aperto conflitto, che capitano per puro caso in un paesino sconosciuto e semideserto, sinistro quanto l’edificio principale che lo sovrasta: un museo delle cere abbandonato completamente realizzato in cera.

Scopriranno una città fantasma abitata soltanto da una coppia di fratelli psicopatici e assassini, eredi del famigerato museo e di tutto il delirio che da decenni vi è legato; affronteranno un’avventura spaventosa ma istruttiva, in un film che sceglie di stare provocatoriamente a metà tra il trash on the road e l’autoanalisi, muovendosi tra corpi imbalsamati e torture gotiche ma sfiorando anche sentimenti inconfessati e valori da riscoprire.

Sì, perché dietro alle apparenze di una confezione usa e getta, sotto la facciata levigata e superficiale di film da drive-in, di cui il regista sembra peraltro servirsi con furba strategia, pulsa traumatico un nodo importante e serio: il rapporto tra fratelli.

Collet-Serra passa oltre di fronte a un Edipo servito su un piatto d’argento fatto di padri alienati e madri mummificate e si concentra su di un rapporto altrettanto fondamentale, sulla figura del fratello, di un fratello gemello che rappresenta specularmente se stessi ma anche l’Altro, qui inteso nel suo senso più ambiguo e complesso, come estensione di sé e come altro da sé agognato e respinto, come parte complementare e come Male che abbraccia più temi, dal diverso al doppio fino al mostruoso.

Quattro personaggi a confronto quindi, due coppie di fratelli immerse nel magma di meccanismi emotivi pulsanti e brucianti come cera bollente; gli assassini da una parte, irrimediabilmente perduti, separati da un tragico quanto simbolico intervento chirurgico che invece di distinguerli li ha fusi in una delirante patologia, e gli eroi positivi dall’altra, da sempre in crisi per il bisogno cocente di differenziarsi, e potere così giungere all’autonomia e all’affermazione della propria identità.

Sarà dunque la distanza la chiave risolutiva da cercare, quella distanza capace di lenire il dolore della separazione, di arginare l’impetuosità degli affetti, di seppellire le gelosie più nascoste, in sostanza di gestire questo rapporto tanto complesso e delicato quale è quello tra fratelli, costantemente diviso tra amore e conflitto.

L’intreccio si dipana attraverso una struttura classicamente horror costellata da buone scene, ottima quella del funerale di cera, e da qualche citazione di genere, prima fra tutte il cinema abbandonato dove si proietta a oltranza Che fine ha fatto Baby Jane?, monumento massimo al confronto tra Caino e Abele e dove una vecchia Bette Davis, insuperata maschera di cera, insegue disperata un’età che non c’è più.

Tutto fino all’happy-end, forse più spettacolare che catartico, che ristabilisce gli equilibri ricongiungendo fetalmente gli assassini attraverso un fuoco purificatore, nonostante una terza testa dell’Idra lasci spazio ad un finale aperto, e salvando i “buoni”, che superati gli orrori più bui di un percorso tanto accidentato quanto simbolico, riusciranno finalmente a “trovarsi”, più forti e più uniti come moderni Hansel e Gretel.

Extra

commenti tecnici; dietro le quinte (making of); trailers