Leggetelo, assolutamente delizioso.

Due piedi con relativo cartellino della morgue campeggiano sulla copertina, in un biancore latteo. Il sottotitolo “vite curiose dei cadaveri”, per quanto possa apparire paradossale, è quanto di più calzante poteva essere trovato per questo Stecchiti, presente per più di un anno nella classifica dei best sellers indicati dal New York Times.

Mary Roach, autrice del libro e redattrice scientifica del NYT Magazine, infrange il tabù della morte in un libro molto rigoroso, documentato, corredato da una estesa bibliografia: eppure questo libro è estremamente godibile, avvincente, vitale.

Se non ci credete, provate un esperimento. Mettetevi comodi, sceglietevi un sottofondo adeguato (un Sakamoto d’annata non sarebbe male) e cercate di non pensare ai cadaveri come tali, ma come i protagonisti di un’epopea storica e scientifica. E in effetti la Roach, con il taglio sicuro del redattore scientifico e una notevole dose di leggerezza calviniana, accompagna il lettore attraverso secoli in cui i progressi della medicina, della tecnica e della società hanno avuto spesso come protagonisti i corpi di chi involontariamente o – si scopre – volontariamente ha messo a disposizione le proprie spoglie mortali permettendo agli scienziati di sperimentare tecniche e studi che non sarebbero stati possibili su esseri umani vivi.

Si incontrano così i pionieri della chirurgia che, approfittando della quantità di teste rese disponibili dalla Rivoluzione Francese, iniziano a pensare alla possibilità del trapianto, o gli sperimentatori dell’uso delle cinture di sicurezza, gli innovatori dell’industria (funeraria) che ebbero come ospiti illustri Lenin e Abramo Lincoln e via discorrendo.

Quello che traspare e piace nel libro della Roach è il grande rispetto che l’autrice ha nel trattare l’argomento: nei libri di argomento criminale – che siano narrativa o saggi – spesso il cadavere è funzionale al racconto. Il protagonista può essere di volta in volta l’omicida o l’investigatore, mentre il corpo in sé è una sorta di elemento di scena che permette di creare la storia, provocare sentimenti di disgusto, compassione o raccapriccio legati all’azione compiuta dall’omicida. Un uso abbastanza impietoso.

In Stecchiti i corpi invece sono le star della narrazione,  sorprendono con i loro cambiamenti biologici, forniscono spunti di riflessione, incuriosiscono con la loro presenza nella storia dell’uomo. Colpisce come il libro riesca a essere privo di cinismo: la scelta dell’ironia come cifra stilistica permette di creare una sorta di complicità con i trapassati protagonisti, tanto che verrebbe da dire che talvolta, a una vita criminosa o noiosa, è seguita una morte molto più interessante o utile.

Stecchiti ha la grazia nera e leggera di un film di Tim Burton, si finisce con il leggerlo velocemente e con una buona dose di divertimento: e ci si trova a dar ragione all’autrice che nella prefazione afferma che “la morte non deve essere per forza noiosa”.